da Il Tempo del 10 Giugno
Esile e tenace, sorridente e volitiva, Anna Procaccini, quarta moglie del mattatore Arnoldo Foà, ha manifestato il desiderio che la memoria di suo marito sia onorata con l’intitolazione di una via o meglio ancora di un teatro. In occasione della presentazione romana del suo libro Io, il teatro. Arnoldo Foà racconta se stesso, edito da Rubettino e in questi giorni in libreria, la vedova ha sensibilizzato l’opinione pubblica e le istituzioni a un adeguato riconoscimento nei confronti di un uomo che ha onorato il nostro Paese attraverso una delle sue espressione artistiche più alte e più apprezzate a livello internazionale. L’attore è scomparso l’11 gennaio scorso e sono quasi esattamente quattro mesi. Impossibile dimenticare la sua voce, la sua ineguagliata lettura di brani poetici nonché le misurate e consapevoli interpretazioni teatrali e cinematografiche.
Cosa le piacerebbe che venisse intitolato ad Arnoldo Foà?
«Non c’è ancora neanche una strada o una piazza che porti il suo nome, come non c’è un teatro intitolato a lui. Credo che questa sarebbe la destinazione ideale e gli farebbe un immenso piacere, anche perché costituirebbe un riconoscimento davvero degno per uno dei più grandi attori del Novecento. Si potrebbe aggiungere il suo nome a quello di uno spazio già esistente, non snaturando la storia di un teatro fisico, ma rinnovandola con un abbinamento evocativo di tante esperienze. È accaduto per il Quirino, ora chiamato anche Vittorio Gassman, ed è la maniera più efficace per non dimenticare queste figure immense che hanno dedicato la loro vita al teatro».
Roma dovrebbe candidarsi per prima?
«Nella Capitale Arnoldo ha trascorso quasi tutta la sua vita e adorava questa città. Noi familiari siamo stati molto contenti della camera ardente e della cerimonia funebre in Campidoglio: è stato un momento altissimo e commovente. Siccome con le sue figlie siamo un nutrito gruppo di donne, abbiamo desideri arditi per tenere viva la sua memoria. Fra due anni, nel 2016, ci sarà il centenario della sua nascita e vorremmo realizzare una mostra antologica per ricordarlo a tutto tondo. Abbiamo un archivio straordinario da mettere a disposizione. Potrebbe essere giusto il Museo dell’Ara Pacis, ma a Roma non mancano altri luoghi espositivi adeguati».
Come descriverebbe il suo libro?
«Ci tengo a dire che Arnoldo ha potuto leggerlo e approvarlo due o tre anni fa. Non c’è nulla che lui non abbia condiviso. È un piccolo viaggio attraverso la sua attività teatrale scritto in stile non didattico, raccontando i suoi personaggi, il suo modo di fare teatro, di recitare e di dirigere. Un testo frutto di testimonianze dirette, a partire dalla mia che ho lavorato con lui per quindici anni, di stralci di sue lettere e altri scritti che fanno parte del suo ricchissimo archivio. Parto dalla sua giovinezza, da una foto del 1936, fra le tante accluse al testo, che lo ritrae durante un saggio di recitazione, per chiarire come la sua capacità interpretativa fosse fortemente connessa al suo sguardo sulla vita: molta serietà, ma anche ironia e leggerezza, per stemperare la fatica del vivere che lui ha conosciuto molto bene. Non ci sono documenti sul teatro del passato se non le fotografie e ho voluto divulgare questi materiali. Il libro diventa così appetibile per chiunque e non solo per gli addetti ai lavori, ma può essere utilizzato anche da loro in quanto è ricco graficamente di ricordi e testimonianze critiche. Tiro fuori anche l’animo di Arnoldo e il suo rapporto con gli altri, non solo con gli artisti con cui ha lavorato, mapure con le altre persone».
Quando è avvenuto il vostro primo incontro?
«È stato un colpo di fulmine in una libreria: dovevo occuparmi come editor di un libro che aveva scritto. Mi ha subito ricoperta di complimenti: io ero timida e preoccupata, ma lui ha saputo conquistarmi con il suo charme. Dopo un anno siamo andati a vivere insieme. Mi ha stravolto la vita: è stato il più giovane degli uomini che abbia incontrato e solo anagraficamente il più grande. Aveva l’entusiasmo e la curiosità di un bambino. Siamo stati insieme per diciassette meravigliosi anni al di là di tutti i pregiudizi. Mi dispiace non avere festeggiato insieme i suoi 98 anni e i nostri 10 anni di matrimonio. Ha chiesto a mio padre la mia mano. La nostra è stata una vera e propria alleanza. Arnoldo era un fiume in piena di idee e voglia di fare: scriveva, dipingeva e amava la musica».
C’è un aspetto di suo marito che le suscita maggiore nostalgia?
«Mi manca il suo sorriso che mi dava sicurezza e coraggio quotidianamente. Può sembrare banale, ma è così. Ridere con lui era taumaturgico. Era un filosofo, un terapeuta del sorriso inteso come arma di difesa contro la durezza della vita. Quando sul suo volto si disegnavano le rughe di un sorriso, diventava un simbolo in carne e ossa della leggerezza propria dei grandi artisti. Non riesco a fare come lui. Aveva un atteggiamento di grande positività nell’affrontare la vita anche se molto più di me aveva conosciuto il dolore».
di Tiberia De Matteis
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