«È qui da poco» mi dice Fabio, accennando al grosso tronco riverso tra i sassi. «L’ha portato giù una buzza del torrente l’estate scorsa. Fanno un bel casino, i temporali, quando si scatenano in queste vallette». Oggi invece c’è poca acqua nella pozza, scivola giù dalla montagna senza far rumore, s’incunea tra i massi e qui si ferma, trattenuta dall’incavo della roccia.
Il grosso tronco, levigato dal gran rotolare che la piena gli ha fatto fare trascinandolo fin qui da chissà dove, è incastrato tra le pietre, bianco come un enorme osso spolpato, e occupa buona parte della pozza. Fabio lo osserva, seduto su un sasso. Si è tolto le scarpe e ora se ne sta lì con i piedi a mollo, silenzioso. Lo imito e mi levo gli scarponi e assaggio l’acqua, che si è temperata sotto il sole di questa giornata di mezz’estate.
Scatto un paio di foto, ma non ho la genialità dei professionisti che saprebbero trarre immagini spettacolari anche da un misero ruscello di montagna. Do la colpa alla mancanza d’acqua e magari a quelle strane bollicine che galleggiano in superficie o all’invadenza del tronco.
«Guarda», mi dice Fabio, che deve aver intuito i miei pensieri, ho una foto di com’è nei suoi momenti migliori. Fa scivolare l’indice sullo smartphone e mi fa vedere l’immagine del torrente spumeggiante, che forma un susseguirsi di cascatelle e poi si butta in una bella pozza di acqua cristallina. L’indice scivola di nuovo e un’altra immagine in controcampo mostra la pozza con ai suoi bordi una capretta nera che fissa l’obbiettivo e, sullo sfondo, un’infilata di cime tra cui riconosco quella di Sgiu, quella di Pinadee e quella di Bresciana, che sovrasta la Val Soi.
«Se l’avessimo trovata così, avrei fatto il bagno», dico poco convinto. Lui, Fabio Andina, scrittore-runner innamorato della montagna, che percorre con passo leggero, vien su da Leontica a farlo ogni tanto, il bagno, come lo faceva tutti i giorni il Felice, il protagonista del suo secondo romanzo, oggi alla seconda edizione italiana (vedi bibliografia), la cui traduzione tedesca sta andando a gonfie vele in Svizzera, Germania e Austria, e che tra pochi mesi uscirà anche in francese.
L’anno scorso ne avevo registrato l’audiolibro per la Biblioteca Braille e del libro parlato della Unitas e mi era subito piaciuta la figura del Felice, quel vecchio e saggio montanaro, filosofo e vegetariano, che se ne va in giro a piedi nudi o su una vecchia Suzuki a corto di batteria, fa il bagno nel torrente estate e inverno e vive ancorato alla quotidianità della sua valle, nella cui natura ha trovato la pace. Un uomo buono e altruista come ne esistono pochi, nemico delle ingiustizie, la cui religione è il minimalismo di un’esistenza che sa apprezzare le piccole cose e sbarazzarsi di tutto il resto.
Un personaggio reale, che riconosco nell’Anselmo, il bastian contrario di Leontica, scomparso novantaquattrenne nel 2014, che si era sorprendentemente prestato come protagonista di un documentario RSI di Fabio Calvi di alcuni anni fa.
Aveva un fisico straordinario, asciutto e muscoloso per la sua età, e camminava svelto sulla montagna, con le braccia dietro la schiena, racconta Andina, che l’ha conosciuto fin da quando, bambino, veniva in vacanza a Leontica, in valle di Blenio, dove suo padre aveva comperato una casetta. La gente diceva che andava tutti i giorni a fare il bagno in una pozza, su in montagna, ma non si sapeva dove.
«Beh, dato che tu lo sai, mi ci devi portare, sono curioso», gli dico, e lui risponde di sì facendomi promettere di non rivelarne la posizione esatta. E così è nato questo strano ed enigmatico itinerario, tutto da decifrare, dove i luoghi si scambiano i nomi, i prati diventano pinete, gli animali si confondono e si fa un gran miscuglio delle specie arboree.
Quella è la casa del Felice. Fabio mi indica una bella costruzione dal tetto in piode piena di fascino nonostante le unghiate degli anni, che ne hanno sbiadito il rosa antico delle facciate e i verdi del portone d’entrata e delle persiane. Davanti, un cancelletto in ferro e l’orto delimitato da un muretto, che gli assicura l’intimità di un tempo perduto. Qualcuno ne coltiva ancora il senso di abbandono, invaso di girasoli sospesi sugli alti fusti, zucche e fagiolini appesi a un viluppo di rami, grosse verze lucenti, prezzemolo, ciuffi di carote e ricami di finocchio selvatico. La casa è chiusa, sul poggiolo un cartello ne decreta il destino: «VENDE», seguito da un numero di telefono e un sito internet. Giù in strada, il parlottare di turisti olandesi si stempera nel suono dell’acqua del vecchio lavatoio.
Risaliamo la Carà Tuschin e «lasciato il paese alle spalle imbocchiamo la strada cantonale che da Leontica sale verso il Nara».
Da quassù le case del villaggio sembrano stringersi le une alle altre, in un’intimità intrisa di calore e solidarietà. Ed è questa la prima impressione che traspare dal romanzo di Fabio, l’immagine di una comunità aggrappata a valori d’altri tempi che continuano a improntare la vita di ogni giorno. Un’esistenza fatta di semplicità, frugalità, lentezza, ritualità e profonda commistione con la natura e i ritmi delle stagioni. Una comunità che se ne sta, comunque, in bilico tra quel suo mondo ancora essenziale e arcaico e la «modernità», con le sue pretese di ridurre tutto a una corsa al denaro, al potere e a un’innovazione tecnologica esasperata. Una «modernità» a cui si guarda con diffidenza, ma che al tempo stesso ha uno straordinario potere di seduzione. E questo fa sì che, quella descritta, sia «una società fragile che si sfalda in modo impercettibile», come ha scritto Wolfgang Höbel, nella sua recensione della versione tedesca su «Der Spiegel».
Camminiamo sull’asfalto, che un tempo ha risuonato dello «schiaffeggiare dei piedi nudi del Felice», poi «lasciamo la strada cantonale al tornante del Vecchio Larice, un larice centenario e solitario», e ci addentriamo in un vasto pianoro disegnato da prati curati e punteggiato da stalle e cascine. A una piazza di giro, la strada diventa sentiero, che si fa subito più ripido. «Mi raccomando, Fabio, vai piano, mi premunisco, sapendo della sua passione per la corsa. D’altronde, lui corre anche con le parole. Scrive di getto e solo alla fine torna sui suoi passi, a rileggere, sfrondare, ridurre all’essenziale. Un modo di scrivere, che si è portato a casa dalla California, assieme a una Remington anni Trenta, che se ne sta lì, nera, come una reliquia appoggiata a un tavolino contro la parete del suo salotto montano. Ogni tanto ci batto ancora su quei tasti. Funziona benissimo. Chissà quante pagine ha scritto.
Nel Golden State c’è vissuto per sei anni, studiando dapprima l’inglese a San Diego e poi sceneggiatura alla Scuola di cinema di San Francisco. Laggiù ha conosciuto il fascino degli scrittori della Beat Generation e uno dei fondatori del movimento, il poeta Lawrence Ferlinghetti. Che gli hanno lasciato il segno.
«Ho imparato ad amare la natura, stando assieme al Felice. A vivere con poco, ad accontentarmi di quello che ho». Fabio butta lì qualche frase ogni tanto, non parla molto, ma sale con passo leggero sul sentiero che lascia per un attimo il bosco e si affaccia su una gobba fiorita con un paio di baite. Camminare in montagna per lui è una sorta di meditazione, un ritrovare se stesso. E la natura gli procura quel senso di pace che già gli trasmetteva il vecchio montanaro. Pace e una certa dolcezza, penso. Almeno qui, su quest’altro poggio su cui siamo sbucati e da dove lo sguardo abbraccia tutta l’alta valle di Blenio. Il sole ha pulito l’aria dai sedimenti d’umidità della notte, l’ha resa limpida e vivida e il cielo conserva solo, in lontananza, lembi di nuvole sospesi alle vette. In primo piano si distinguono i dolci pendii del Nara, di Piandioss e di Gorda. Sull’altro versante della valle, s’intravvedono i primi contrafforti del massiccio dell’Adula e, di fronte a noi, la Cima di Gana Bianca e la piramide del Simano.
Incontriamo altre cascine tra i prati falciati, poi il sentiero ritorna nel bosco, che taglia in leggera salita. Fabio mi precede sempre con quel suo passo fluido e ritmato. Gli chiedo del suo nuovo libro (Ndr: Sei tu, Ticino? Pubblicato il 17 settembre da Rubbettino). «È un’altra cosa. Prima di tutto nella forma. Questo è un libro di racconti. Sette, con altrettanti personaggi. C’è l’Andrea tormentato da un amore non corrisposto, il Teo, amante della montagna e poi il Seba, appassionato di BMW, la ragazza che ha scoperto il fumo, quello finito in galera. È diverso anche a livello tematico, questo è forse meno poetico e vi affronto altri argomenti. In comune hanno però lo stile narrativo asciutto. Direi che, se La pozza del Felice è un country blues, in Sei tu, Ticino? c’è anche un po’ di rock».
In quest’epoca del mordi e fuggi, di post ridotti all’osso e cinguettii che svolazzano nel web, il genere «racconto» sta tornando in auge, stimolando l’interesse dei lettori frettolosi, sempre più catturati dal fascino della brevità. E l’editoria si adegua. Anche la Rotpunktverlag ha annusato le nuove opportunità e sta valutando di tradurre in tedesco anche il nuovo libro di Fabio Andina.
«E infine, dopo un interminabile periodo di silenzio, il Felice dice bòn e si ferma. Mi fermo anch’io, prendo fiato e poi la vedo. Una macchia plumbea fra le rocce nere. La pozza».
Con il sole che c’è oggi, quando arriviamo lì, tutto appare invece più chiaro e anche la roccia risplende riflettendone i raggi. La pozza però è ridotta male, con quel misero rivolo d’acqua che l’alimenta è poco più di un catino col fondo di ghiaia.
Ricordo le immagini del documentario di Fabio Calvi. È la fine novembre, il Felice/Anselmo nudo come un verme spacca il ghiaccio a colpi di tallone, entra nell’acqua e butta fuori i lastroni lucenti. Poi s’immerge a pancia in giù. E pensare che allora aveva già ottantasette anni, mi fa Fabio, che se ne sta lì seduto sul tronco, pensieroso.
Quando ho scritto il libro, continua, ho fatto una promessa, se riesco a pubblicarlo, per ringraziare, che so, l’universo che ha tramato per far sì che trovassi un editore, ogni volta che ritorno a Leontica vengo a tuffarmi nella pozza. È una sorta di rito, per Fabio, il mantener fede alla promessa. L’immergersi nell’acqua fredda è un po’ come rimaner vicino al vecchio montanaro scomparso prima che il libro vedesse la luce, perché quest’acqua nel suo ciclo continuo bagnerà sicuramente anche lui, ovunque si trovi.
«E poi – guardando il tronco, conclude – mi piace pensare sia un vecchio larice. Vecchio e saggio come il Felice. Forse è proprio lui, che è tornato a fare il bagno nell’acqua fresca del torrente Gurundin».
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