La dimensione territoriale della produttività delle imprese
a cura di Stefano Manzocchi, Beniamino Quintieri, Gianluca Santoni
da La Domenica del Sole 24 Ore del 20 Aprile
Fra mainstream e cultura marshalliana, nuova geografia economica e necessità di calare i modelli teorici nel bagno di umiltà garantito – sempre – agli economisti dalla realtà effettuale, va in libreria Le cento Italie della competitività. La dimensione territoriale della produttività delle imprese. Un volume pubblicato da Rubbettino e curato da Stefano Manzocchi, ordinario di economia internazionale alla Luiss, da Beniamino Quintieri (ordinario di economia internazionale a Roma Tor Vergata, ex presidente dell’Ice e oggi presidente della Fondazione Manlio Masi (Osservatorio nazionale per l’internazionalizzazione e gli scambi) e da Gianluca Santoni, assegnista alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e ricercatore della Fondazione Manlio Masi.
Questo libro si colloca nell’alveo di quella corrente italiana che prova – faticosamente, nel senso che questo atteggiamento rappresenta una sorta di doppia “devianza” sia rispetto alla prevalenza anglosassone sia rispetto al becattinismo italiano più rigoroso – ad adoperare gli strumenti statistici e i modelli econometrici per capire che cosa è diventata l’Italia, quali forme ha assunto la seconda manifattura d’Europa, in fondo chi siamo diventati. Lezioni teoriche e analisi empiriche che vengono proiettate sullo schermo cinematografico degli ultimi quindici anni, provando a sceneggiare un film in cui – in maniera definitiva, con la moneta unica – la rigogliosa e abnorme pianta oppiacea chiamata svalutazione “competitiva” viene interrata e in cui la nostra economia sperimenta una ristrutturazione dolorosa ma vitale nei primi anni Duemila, mentre la globalizzazione rimodella – ora con l’impatto devastante del martello e ora con la delicatezza della setola del pennello – il profilo del paesaggio industriale italiano. Uno degli esiti più interessanti di questo libro è rappresentato dall’emergere di un «effetto urbanizzazione» sulla produttività, che assume caratteri diversi e soprattutto una intensità maggiore in confronto all’«effetto distretto». La metodologia – brutale, ma efficace – è quella dell’analisi comparata di migliaia di imprese manifatturiere – i cui bilanci sono raccolti nella banca dati Aida – secondo una classificazione finalizzata a cogliere la loro appartenenza a una agglomerazione di tipo urbano o a una loro adesione a un sistema di sviluppo locale non baricentrato sulle città. «Non si tratta – si specifica in uno dei passaggi salienti del volume – di un territorio dove l’attività produttiva è specializzata in un certo comparto, con i tradizionali nessi verticali fra fornitori e clienti, ma di un effetto di concentrazione orizzontale dell’attività economica dove vari settori interagiscono».
Dunque, in qualche maniera pare imporsi un cambio di paradigma, perfino per una economia italiana così tanto concentrata su «quella cosa lì», non importa che si chiamino distretti, economie di territorio o sistemi di sviluppo locale. «La tipologia di agglomerazione che sembra affermarsi come principale motore della produttività – si legge ancora nel libro – sembra legata a un mix virtuoso di industria e servizi, con una forte rilevanza della dotazione di infrastrutture e di asset immateriali sul territorio». Dunque, qualcosa di profondo, quasi di strutturale: «Al di là della retorica sul locale/globale, occorre cogliere le novità che emergono dagli insediamenti produttivi urbani», si legge nel saggio. E, a questo punto, il volume appare interessante per la sfida interpretativa che pone – in una versione moderna ed economica della contrapposizione, classica nella storia italiana, fra città e contado – per una nuova analisi degli snodi metropolitani. I quali paiono avere la funzione di gangli dell’organismo italiano industriale diffuso. Gangli in grado dí formare un ambiente psicologicamente favorevole all’imprenditorialità e di cedere alle singole imprese servizi. Capaci di indurre la circolazione di competenze tecnologiche e di connettere, con maggiore facilità, le imprese alle reti globali, in cui scorrono merci e conoscenza, denaro e pezzi di futuro.
di Paolo Bricco
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