Non è mai facile parlare di sofferenza e in un tempo come quello attuale, dove l’immagine e il successo sono tutto, è ancora più difficile. Maggiore è la richiesta performante della società contemporanea, minore è la possibilità di ammettere le nostre debolezze, vivendole più come un tabù che come risorsa interiore.
Anzi, proprio perchè il nostro è un mondo dove tutto è possibile, dal progresso scientifico a quello tecnologico, dall’invasione dei social network all’esposizione mediatica, in primis del dolore, si pensa che niente è impossibile. Basti pensare ai conflitti generazionali, ai tanti giovani molto spesso con livelli di studio elevati e costretti a fare lavori precari e mal pagati, ai cinquantenni espulsi dal mercato del lavoro che non riescono a rientrarvi e un’immigrazione incontrollata con un’integrazione sempre più difficile da realizzare.
Guido Giarelli – docente universitario di sociologia generale e della salute – ha scritto un saggio molto interessante in proposito, di respiro accademico ma comprensibile a tutti, pubblicato quest’anno da Rubbettino editore dal titolo “Sofferenza e condizione umana. Per una sociologia del negativo nella società globalizzata”, in cui effettua una puntuale e rigorosa riflessione critica sulla fenomenologia della sofferenza nell’epoca della globalizzazione.
L’indagine parte individuando diversi tipi di sofferenza classificati in base alla causa e alla natura della sofferenza stessa, che sia ambientale, sociale, biopsichica o esistenziale. L’autore precisa che:
Non si tratta solo di spiegare al sofferente la sua condizione da una prospettiva esperta, quanto di rivelargli il funzionamento del sistema sociale affinché possa comprendere le relazioni di potere nelle quali la sua vita si trova incastonata.
Nel titolo del libro si parla di ‘negativo’ in quanto trattasi di un componente intrinseco del genere umano, nel senso che c’è il negativo perché c’è il positivo. Quest’ultimo è infatti la potenza di agire sulla realtà, cambiandola, che i sociologi chiamano agency, contrapponendola all’impotenza di agire o alla ‘non azione’, un po’ come il dualismo fra il giorno e la notte. Il saggista ritiene che l’analisi della dimensione del negativo debba essere fatta dal punto di vista scientifico ed evitare, così, la classica contrapposizione fra cultura umanistica e scientifica. A tale scopo individua il pensiero di alcuni fra i più importanti filosofi e sociologi, scelti in modo del tutto personale, anche se – sottolinea – ha influito, nella scelta, il contributo euristico che essi hanno dato all’elemento del negativo. Si tratta di Marx ed Engels, Emile Durkheim e Max Weber, fra i classici; Hans Jonas, Kenneth Irving Zola e Margaret Archer, fra i contemporanei. Quest’ultima è l’unica tuttora vivente.
Ne vengono citati anche altri, come ad esempio Erich Fromm o Hannah Arendt, tra i più noti.
Se Marx parla di negativo come alienazione, individuando nel proletariato l’elemento maggiormente sofferente a causa della logica capitalistica di accumulazione, Durkheim parla di anomia e Weber, invece, di gabbia d’acciaio, all’interno del quale è imbrigliato l’uomo occidentale e le cui sbarre sono costituite da una razionalità che pervade tutto e da una burocratizzazione sempre più diffusa che ne ha ridotto il raggio d’azione.
I concetti espressi dal sociologo della medicina Irving Zola sono quelli di vulnerabilità, fragilità e resilienza. Quest’ultimo termine è divenuto molto in voga anche nel linguaggio comune e ha un valore differente nelle culture occidentali, dove l’autostima e l’autonomia personale sono degli indicatori molto significativi, mentre nelle culture orientali si dà più importanza all’armonia interiore ed esteriore, inteso come maggiore rispetto della vita collettiva. Zola, a causa di una poliomielite, trascorse un lungo periodo di isolamento, esperienza questa che, seppur negativa, lo rese consapevole dell’importanza dei rapporti sociali quale fonte di “sostegno emotivo, cognitivo, sociale e pratico”.
Molto interessante è, infine, l’analisi su Margaret Archer, che individua diverse modalità di approccio degli individui verso la propria riflessività, ovvero una conversazione interiore che ha come conseguenza un certo tipo di orientamento e di atteggiamento verso l’esterno e verso gli altri da Sé (e dove ciascuno di noi, leggendo, si può riconoscere).
Secondo Guido Giarelli la riflessività interiore non è una componente innata, ma la si deve allenare per mantenerla nel corso della vita ed è importante per non perdere il controllo su emozioni e sentimenti, sia propri che altrui. In pratica: ascoltarsi e ascoltare.
Vivere senza sofferenza è solo un’illusione. Mantenere, invece, con essa un costante dialogo, accettare i nostri limiti e cercare una comunicazione con gli altri che non sia mediata dalle tecnologie e fare di queste un uso consapevole può divenire una realtà.
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