A trent’anni dalla prima uscita, Rubbettino pubblica il romanzo d’esordio di Rocco Carbone. Agosto è il titolo dell’opera dalla quale si evince la grande maturità narrativa, non scevra di un godibile brio giovanile, dello scrittore e critico scomparso prematuramente nel 2008 all’età di quarantasei anni.
“Voglio andare via, ritornare in città aspettando la pioggia, dimenticare al più presto il mese di agosto che ormai è quasi finito.”
Agosto, “il pomeriggio dell’anno” secondo Georgi Gospodinov, il mese in cui tutto sembra costretto a un andamento più sonnacchioso e lento, in cui tutti appare procrastinabile. Fedele a questa attitudine, di fatti, l’avvio del romanzo di Rocco Carbone è placido, pigro e inquieto come una giornata d’agosto, fiaccata dalla calura fin dall’aurora, sa essere.
Sbuffi d’aria calda, mosche attorno a cumuli di spazzatura irrancidita, luci al neon singhiozzanti e pale dei ventilatori che tracciano infiniti cerchi sui soffitti dei pochi bar rimasti aperti. Il sudore riga il collo e inumidisce la camicia, anche gli stranieri alle pompe di benzina sono in ferie e alla stazione, solo luogo/non-luogo affollato di gente, l’altoparlante annuncia il ritardo di qualche treno. Piccoli gruppi di turisti attraversano stancamente le strade arroventate di giorno e deserte di notte, abitate soltanto da meretrici tristi e rassegnate al loro destino.
Rocco Carbone ci riporta a una estate degli anni novanta – una delle sue estati da ragazzo in procinto di salutare la giovinezza – che, zoccoli ai piedi e walkman in testa, si trascina indolente fra una città e un paese della costa tirrenica calabrese – corrispondenti, si intuisce, a Reggio Calabria e a un paesino interno dell’attuale città metropolitana.
“Straniero” a casa propria
Un cronista si muove scrutando la città, vuotata dalle ferie d’agosto, sotto una nuova veste, cercando di tenersi attivo, fingendo “la fretta di chi non ha niente da fare ma non vuole mostrarlo a nessuno”. Il protagonista rimugina su un amore svanito – pagine di grande bellezza e profondità, di intensa espressione artistica –, evoca fantasmi di donne passate, mentre dinanzi ai suoi occhi si appalesano piccoli squarci di umanità agostana, vite a basso consumo energetico, in attesa che avvenga qualcosa, ma più in là, magari a settembre, il mese in cui tutto riparte, in cui la macchina del mondo pare riaccendere il motore e accelerare.
Il personaggio centrale dell’opera è presente ma sempre un po’ avulso dal cuore della vita del paese, in realtà scontento del suo lavoro che reputa orribile, ché è obbligato a scrivere pezzi di vicende che “più sono crudeli e più fanno notizia”; abulico ed estraniato, anche al cospetto dei dolori, del tragico che, col finire della stagione, si presenterà.
In quello che è un romanzo di grandi solitudini che si perdono nel monotono viavai della vita suburbana in una lenta estate degli anni novanta, il protagonista del romanzo di Rocco Carbone taglia le sue giornate agostane ma non vede niente, profondamente apatico, eppure d’ognintorno dovrebbe esserci un’abbondanza di meraviglie naturali: il mare, il profilo bluastro della Sicilia, le Eolie baluginanti, le cime dell’Aspromonte. La sua vita, l’esistenza di questo “straniero”, di questo personaggio estremamente letterario, è segnata da una deliziosa malinconia, dal sentore muto di una fine imminente e già presagita nell’aria.
“È come se ogni volta crediamo che l’estate non debba mai finire, e invece basta un giorno per accorgerci che è già passata.”
Lo stile e le influenze letterarie di Rocco Carbone
In Agosto emerge una maturità letteraria non comune ma anche uno stile giovanile e vivace, seppur asciutto, il cui fascino, come sostiene Edoardo Albinati nella postfazione confezionata per Rubbettino, “deriva dalla sottrazione”, dall’estrarre anziché aggiungere.
D’altra parte era già stato Emanuele Trevi – amico di Carbone, a cui, parimenti a Pia Pera, ha dedicato il libro Due vite, premio Strega 2021 – a sottolineare l’abilità di cesellamento dello scrittore, la sua “minuta precisione del discorso”. Nelle pagine dell’opera traspare qualcosa dei romanzi “estivi” di Cesare Pavese, soprattutto il racconto lungo La spiaggia, ma pure La bella estate, col suo carico di nostalgia e inevitabile finitudine, l’ineluttabilità di qualcosa che, presto o tardi, dovrà accadere.