Non è un libro di “storia di genere”, come potrebbe far pensare il titolo, quello scritto con passione e approfondimento da Rossella Pace, giovane studiosa dagli interessi focalizzati soprattutto sulla storia del liberalismo e della Resistenza, ma un libro sull’impegno di alcune donne liberali e sul loro contributo alla lotta di liberazione in particolar modo tra Liguria e Lombardia. Sullo sfondo e da cornice entro la quale si svolge il ruolo femminile, la storia dell’attività del Partito Liberale nell’esperienza resistenziale. Si tratta, come è noto, di una storia sempre piuttosto sottovalutata quella della partecipazione dei liberali e del ruolo del PLI nell’ambito della lotta partigiana, rispetto al quale, è stata applicata una sorta di “conventio ad excludendum”, «registratasi in gran parte della storiografia e nella retorica politica sulla Resistenza dopo il 1945». Così scrive la Pace a p.19, in un capitolo dedicato alla “anomalia storiografica” -sintesi aggiornata delle stagioni degli studi storici sul controverso tema della Resistenza- da cui si evince con chiarezza il sottodimensionamento delle ricerche sul PLI e su tutto l’universo politico e culturale che gli girava intorno.
Il libro in verità, già nelle intenzioni dell’A., ha un duplice obiettivo, per un verso cioè quello di «approfondire il modo in cui segmenti significativi dell’alta borghesia settentrionale affrontarono la caduta del fascismo, la guerra civile e la conseguente lotta armata» (p. 19), per un altro quello di mettere in luce il ruolo imprescindibile di alcune donne liberali che parteciparono alla guerra di liberazione nazionale; ma in particolare di una tra loro, Virginia Minoletti Quarello, Niagi o la Minossina come veniva chiamata dai compagni di lotta. Virginia, classe 1907, moglie del Segretario della Delegazione Alta Italia del PLI, Bruno Minoletti -autrice anche di un libro di memorie in cui rievoca la sua attività negli anni difficili della RSI, Via privata Siracusa (1946) (ripubblicato da Ultima spiaggia, collana Isole, nel 2016) – ospitò, insieme al marito, nelle proprie case, prima a Genova e poi a Milano, gli uffici Alta Italia e l’archivio liberale, annotando in un diario personale relativo al periodo 1940-1945 (da lei intitolato Interno 10. Pagine di cospirazione genovese, fonte privilegiata dall’A. e parzialmente riprodotto nel volume), preziosissime notizie sulla organizzazione del partito, sui protagonisti e sulla rete dei rapporti esistenti tra i compagni del partito e sui loro ruoli, ma anche sui loro dissidi, sulle loro fratture ideologiche che riproducevano, sebbene solo in parte, il progressivo mutamento del clima della Resistenza nel suo complesso. Quel clima, insomma, di “resistenza perfetta”, per dirla con De Luna, che con la fine della guerra sarebbe poi inesorabilmente cambiato, lasciando il posto al bipolarismo ideologico più radicale.
Il volume, basandosi proprio sulle testimonianze della Minoletti Quarello, consente di ricostruire la “rete liberale” che si sviluppò grazie anche alla presenza attiva di potenti matriarche quali Virginia Taverna a Roma, Mimmina Brichetto a Milano, Costanza e Cristina Casana a Torino (alla figura di Cristina Casana, Rossella Pace ha precedentemente dedicato un lavoro di ricerca, La Resistenza liberale nelle memorie di Cristina Casana, Rubbettino, 2018). Fu a Genova, dove cioè risiedeva la Minoletti Quarello che, all’indomani dell’8 settembre, Bruno Minoletti (Minosse) ricevette da Marcello Soleri l’incarico di ricostituire il Partito Liberale in Liguria, fondando anche il CLN ligure. Casa Minoletti a Nervi, diventò così ben presto una delle centrali operative più attive nell’organizzazione della resistenza liberale, fino a quando a causa della clandestinità di Bruno, i coniugi non furono costretti a trasferirsi a Milano nel novembre del ’44. Da allora e sino alla liberazione di Milano, Minosse fu segretario del Partito Liberale per l’Alta Italia, e mantenne ininterrottamente i contatti con il CLNAI e con quello svizzero, partecipando insieme con la moglie, a tutte le vicende politiche milanesi di quel periodo.
Ma veniamo al ruolo delle donne liberali nella lotta partigiana. Questo è stato caratterizzato da diverse funzioni, la cui importanza non sempre è stata riconosciuta anche dai partigiani uomini. Non vi è dubbio che una delle modalità di partecipazione più diffusa (ma non esclusiva, si veda ad esempio il caso ampiamente documentato nel testo della liberale Maria Giulia Cardini, Croce al merito di guerra) ed incisiva del ruolo femminile è quella che vede le donne impegnate nella resistenza civile, senza l’uso delle armi. Si trattava cioè dell’impegno a prendere parte ad operazioni strategiche, «ricorrendo ad azioni che rientrassero nell’ambito dell’attività femminile consolidata», ma che in tale contesto era anche «tesa a rivendicare l’importante ruolo che le donne avrebbero dovuto svolgere nella società, ma che era stato sempre loro negato» (p. 84).
Consapevolezza politica e spesso -soprattutto nell’universo aristocratico liberale- consapevolezza di ricoprire un ruolo sociale che in situazioni estreme impone scelte decise e decisive per chi ti circonda; opposizione al regime e volontà di riscatto, queste, insomma, le leve sulle quali poggia la resistenza femminile liberale, capace di contribuire a costruire le ramificatissime “reti” antifasciste che riuscirono a mantenere i collegamenti tra Torino, Genova, Milano e la Svizzera durante tutto il periodo della lotta al nazifascismo attraverso le varie organizzazioni partitiche.
Come è noto, uno dei protagonisti della Resistenza liberale in armi era Edgardo Sogno con la “sua” Organizzazione Franchi che ricevette un indispensabile contributo logistico dalle reti aristocratiche antifasciste, nelle quali le donne, appunto, giocarono un ruolo da protagoniste, in quello che potremmo definire un “antifascismo da salotto”, come lo definisce e lo descrive la Pace nel V capitolo con dovizia di particolari, soprattutto per quanto riguarda l’alta aristocrazia coinvolta nell’opposizione antifascista prima e nella Resistenza poi. «Se, infatti – scrive la Pace – per far funzionare la rete salottiera era necessaria e preponderante la presenza delle donne, ancora più importante fu il ruolo che queste assunsero man mano che si entrò nel vivo della lotta. A questa regola non fece eccezione neanche l’Organizzazione Franchi» (pp. 117-118), che si poté avvalere di staffette e segretarie, intente nella ricerca di alloggi, nella collaborazione con la sezione documenti falsi, nell’assistenza ai prigionieri e, compito delicatissimo, nel nascondere i ricercati.
Parallelamente però, si combatteva una diversa battaglia più interna, di tipo organizzativo, ma che aveva una profonda valenza politica e che vedeva sempre la Minoletti Quarello impegnata e sostenuta dal delegato del PLI, Martino. Ci riferiamo al tentativo di lasciare che il Comitato di Coordinamento Femminile Antifascista rimanesse autonomo da quello dei Gruppi di Difesa della Donna, nato nel novembre del 1943 su iniziativa di altre donne anch’esse impegnate nella lotta di liberazione, ma di altra estrazione politica, prevalentemente comuniste, socialiste e azioniste. La personale battaglia della Minossina, ebbe solo parzialmente esito positivo e fondamentalmente circoscritto all’entourage genovese con l’appoggio esplicito del solo PLI (anche la DC, che pure aveva sostenuto inizialmente la posizione autonomista, si spostò su posizioni filo GDD, inquadrati nel CLN), facendo sì che il Comitato continuasse a funzionare nel capoluogo ligure, sovrapponendo la sua attività a quella dei GDD.
Malgrado l’impegno e la dedizione di tante donne liberali, che avevano profondamente creduto nella lotta antifascista, per motivi ideologici e anche come forma di lotta per l’emancipazione femminile, tuttavia, queste stesse donne, appena finita l’esperienza resistenziale e di prima stabilizzazione postbellica (la Minoletti Quarello è una delle poche donne liberali che, partecipando alla Consulta, assunse un ruolo pubblico), si sono sostanzialmente autoescluse dalla Storia. E tale autoesclusione, scrive la Pace, è forse «determinata dal pudore nel non parlare di quegli avvenimenti, che si consolidò all’indomani del 25 aprile» (p. 137); o forse e soprattutto è anche dovuto ad una questione per dir così, sociale; nel senso che nell’immaginario collettivo e nella “vulgata” dominante, le “partigiane liberali” sono percepite come “le altre”, aristocratiche signore snob, appartenenti ad una cultura elitaria e ad un partito di élite che nulla poteva comprendere dei problemi concreti delle masse, a differenza delle altre partigiane che si inserivano più docilmente all’interno dei processi in atto nei tre grandi partiti di massa che tutto inquadravano e tutto amalgamavano nella cornice rigida dell’ideologia.
D’altra parte, è pur vero che “le donne liberali che avevano partecipato alla Resistenza vennero, nel dopoguerra, a rappresentare «l’anello debole” nella dialettica interna del partito, profondamente diviso sui temi come la scelta tra monarchia e Repubblica e lo stesso rapporto tra antifascismo e democrazia» (pp. 141-142) che comportò forti tensioni, fratture profonde e scissioni all’interno del PLI, al punto che, per concludere riprendendo quanto scrive la Pace, «la memoria della partecipazione dei militanti liberali alla Resistenza divenne per molti versi imbarazzante, troppo divisiva, e venne quindi raccontata poco, male, in maniera rapsodica, se non spesso abbandonata da molti protagonisti (i Minoletti tra questi) a causa della loro delusione per l’esperienza politica successiva» (p. 142).
Insomma, il libro di Rossella Pace aggiunge un nuovo ed originale tassello alla ricerca sul complesso tema della Resistenza, che, a tutt’oggi, continua a rimanere uno dei momenti più divisivi della storia d’Italia
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