Sono le storie profonde e lievi a valicare i sentimenti, a tenerci stretti, serrando la morsa appena a legarci giusto un po’ per saltare insieme dentro scenari già nostri, infine abbassare gli occhi sulle pagine e scomparire. Con gli occhi di Rosa Sirace poi, occhi trasparenti ed espressione smarrita di ragazza sensibile alla meraviglia di suoni e di immagini, con quegli occhi li vedi i personaggi, continuano a camminare quasi ci sfiorano, ci siamo noi e queste pagine di un intenso e insolito romanzo di formazione, Il cielo comincia dal basso di Sonia Serazzi (Rubbettino Editore).
Una storia che si snoda tra passato e presente, quasi un percorso esistenziale, di una donna, Rosa Sirace appunto, alla scoperta di se stessa sullo sfondo di una cittadina del Sud, una storia che parla di radici e di speranza, che ci riguarda tutti, certo perduta nel tempo ma che ritorna come una preghiera che viene dal mare. Cosa d’altronde potrà mai superare in altezza il campanile – le punte aguzze delle metropoli scompaiono nella nebulosa delle polveri sottili –, cosa eguaglierà i contraccolpi dell’amore nella piazzetta davanti la chiesa, i nomignoli con cui apostrofare gli amici di sempre – tornano come un’eco, come la neve delle palle di vetro capovolte – i singulti strozzati di chi ti invecchia accanto, i ricordi del sole più infuocato e del freddo più insensibile? Dove altrove poter raggiungere con lo sguardo ogni angolo del piccolo mondo su cui ti affacci? Pure respirare è superfluo dove l’aria è familiare.
È la capacità di Sonia Serazzi di lasciare che gli oggetti più quotidiani rimangano in religioso contatto con la verità ultima, anche solo per un giro interrotto di pallone sgonfio, esplora con eleganza i rapporti elementari dell’esistenza, in quello che è un romanzo delicato ed essenziale, condotto con la narrativa del frammento, la giusta inclinazione data alla scrittura per sfiorare la profondità in piccoli blocchi di parole, eppure capace di concedere a ogni riga forza alla semplicità, di mostrare la fragilità umana dirompente quanto un germoglio in fiore. Un piccolo mondo antico raccontato attraverso gli occhi di una scrittrice che ha compreso la ricetta della sincerità lirica, quella che tratteggia, a linee sottili, una trama apparentemente innocua con la bellezza delle parole, la danza con i momenti più inutili di una vita ordinaria. Fra quei dettagli intonati a un contesto sociale tipico dei paesini del profondo Sud – sotto l’ombra del fico selvatico, rifugio e riscatto, le sere d’estate a parlare in mezzo alle frescure dei vicoli – ogni parola è stata scelta con cura, levigata, un corpo di parole lavorato di cesello come gli scrittori sanno fare per reggere gli urti dell’ispirazione, e in questa apparente fragilità di intenti si rivela una sorta di rivoluzione, imprevista estetica delle domande essenziali a cui non consegue né una lotta né un cammino, ma risiede nella magia dei momenti perfetti, quella per cui dici rimango qui, io resto, che è un po’ io resisto. Senza troppi scossoni, né colpi di vento, né remi in barca tesi e coordinati a tirare dritto, buttando via tutto quel poco si aveva e si era prima di partire per la città e il futuro, là dove tutti sembrano affaccendati alla ricerca dell’oro e dove sta l’orizzonte sinceramente non lo sanno.
Così Rosa nel suo mondo meridionale, anche nel bel mezzo dei momenti decisivi della sua vita, circondata da tutti si immerge nella sua comunità apprezzando le piccole cose inaspettate, un’isola felice e fragile come la prima neve, che fa dire il cielo da quaggiù è tutto nostro, non c’è altra porzione ad avvolgere altro mondo.
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