Virginia Minoletti Quarello, Cristina Casana, Maria Giulia Cardini, Mimmina Brichetto, Marcella Ubertalli, Maria Eugenia Burlando, Nanda Mura … Chi erano costoro?
I loro nomi ci suonano in gran parte sconosciuti. A loro non sono stati eretti monumenti. Le loro gesta non sono state celebrate in film o fiction televisive. Eppure, se dopo la dittatura fascista e la seconda guerra mondiale l’Italia è diventata un paese integrato tra le democrazie e le grandi economie indistrializzate, lo si deve anche a loro, e non poco.
Erano donne appartenenti a famiglie della grande e media borghesia italiana, di formazione liberale, cattolica, monarchica. Donne che a partire da quella formazione tra il 1943 e il 1945 esercitarono ruoli di primo piano nella Resistenza contro il nazi-fascismo: coordinando, organizzando, dirigendo una fitta rete di gruppi armati nell’Italia settentrionale.
Ora le loro storie, e quelle di molte altre, sono raccontate – sulla base di documenti in larga parte inediti e di una paziente ricerca presso archivi familiari – nel libro Partigiane liberali. Organizzazione, cultura, guerra e azione civile di Rossella Pace (Rubbettino editore).
Tenendosi accuratamente fuori da tutti gli stereotipi della storiografia “di genere”, l’autrice porta alla luce figure di donne che furono protagoniste senza dover chiedere concessioni a nessuno: per l’educazione che avevano ricevuto, per il senso del dovere e della dignità che avevano ereditato, per una naturale adesione all’ideale della libertà contro l’oppressione. Donne estranee a qualsiasi indottrinamento ideologico totalitario: quello fascista che aveva irregimentato l’Italia per un ventennio, ma anche quello comunista.
Virginia Minoletti Quarello, tra Genova e Milano, organizzò il servizio di prestito e i trasporti di materiali logistici e armi del CLNAI, per poi entrare nel comando del Corpo volontari della libertà e diventare una dirigente dell’organizzazione Franchi, la più corposa formazione dell’antifascismo liberale, guidata da Edgardo Sogno. Cristina Casana fece della sua villa familiare di Novedrate una delle basi logistiche e di cominicazione della stessa Franchi, ospitando una stazione radio e nascondendo partigiani alla macchia, ricercati, ebrei in fuga dalle deportazioni. Maria Giulia Cardini fu l’unica donna in Italia a diventare, dopo una militanza attiva nella Resistenza piemontese, capo cellula di una missione militare delle truppe alleate, la Chrysler, nelle valli di Susa, Aosta e Pellice. E si potrebbe continuare, con tanti altri nomi e altre figure.
Quelle storie sono parte di una grande pagina a lungo oscurata della storia italiana: quella della Resistenza liberaldemocratica, moderata, filo-americana, militare, e, appunto, “borghese”. Una pagina “sequestrata” dalla propaganda delle sinistre socialcomuniste, intenta a costruire il mito di una lotta di liberazione egemonizzata politicamente e ideologicamente da loro, e quindi di una loro automatica legittimazione democratica (nonostante la loro obbedienza di allora al regime totalitario sovietico), che veniva invece negata, o dispensata sempre con riserva, ad altri.
Da decenni molti storici e giornalisti d’inchiesta hanno cominciato a demolire questa dittatura ideologica. Riscoprendo l’importanza centrale avuta, nella lotta di liberazione, dai partigiani dell’esercito, da quelli appartenenti alle formazioni cattoliche, da quelli monarchici e liberali. E riportando alla luce gli eccidi perpetrati ai loro danni da parte di quelli comunisti agli ordini di Mosca o di Tito.
Ma la cultura della sinistra post-comunista – oggi progressista/globalista, relativista, multiculturalista – continua a combattere strenuamente per mantenere egemone quella vecchia e screditata ortodossia, su cui tenta ancora, nonostante l’evidenza storica, di lucrare politicamente.
Partigiane liberali aggiunge una tessera importante alla demistificazione della storia partigiana, al suo ritorno alla realtà. Dalla ricerca dell’autrice emerge la mappa di una corposa élite liberale di origine prefascista, che durante il regime e il conflitto si organizza rapidamente a dare corpo alle cellule clandestine della Resistenza, e in cui le donne – madri, mogli, figlie, professioniste, impiegate, intellettuali – giocano un ruolo cruciale.
Con l’umile, ma potente rosario di tante vicende personali salvate dall’oblio il libro contribuisce significativamente a smantellare due miti ancora presenti nella storiografia e nella memoria pubblica italiane.
Il primo è quello di una presunta maggiore organizzazione, coerenza, efficacia della Resistenza “rossa” rispetto a quella “autonoma”, non ideologizzata, che sarebbe stata per molti storici “ortodossi” una sorta di “scampagnata” individualistica ed elitaria. La mappa della Franchi, dei suoi organigrammi, dei suoi collegamenti, così come quella delle brigate liberali liguri, o l’attività di coordinamento svolta in Brianza dalla famiglia Casana dimostrano invece con evidenza come il campo partigiano liberale fosse dotato di una struttura capillare, di una disciplina ferrea e di una efficace distribuzione dei compiti.
Il secondo mito sfatato dal volume è il luogo comune secondo cui nella Resistenza liberale, cattolica, monarchica le donne ricoprissero un ruolo subordinato, perché in quegli ambienti dominava una concezione tradizionalista della famiglia che prevedeva le donne quasi soltanto come mogli, madri o segretarie. Il quadro che emerge dalla ricostruzione di Rossella Pace è invece quello di famiglie in cui la componente femminile si trovava già – in relazione al contesto storico generale – in una condizione di pari dignità culturale, pratica e psicologica rispetto a quella maschile. In molti casi, la Resistenza liberale nasceva addirittura dalla paziente, coriacea azione di preparazione svolta da un vero e proprio matriarcato. Le sue protagoniste si erano in larga parte formate nei salotti delle grandi famiglie eredi delle classi dirigenti post-risorgimentali, con frequentazioni anche fuori d’Italia, sensibili ai mutamenti sociali e culturali. Una rete in cui le donne erano protagoniste e ispiratrici.
E’ da quei salotti che si cominciò a costruire l’organizzazione di una Resistenza che guardava ad un prossimo futuro in cui l’Italia si sarebbe reinserita tra i paesi liberi, democratici, moderni.
Nelle storie di quelle donne si intravvede già, in filigrana, un’Italia che si sarebbe manifestata a partire dalla ricostruzione, nonostante la cappa delle ideologie ancora incombente: un’Italia che guardava con decisione a Occidente, senza complessi d’inferiorità, pragmatica e operosa. Un’Italia in cui tante donne – ben al di là della stucchevole retorica femminista che sarebbe sopraggiunta dagli anni Sessanta in poi – erano già a tutti gli effetti parte della classe dirigente, nell’economia e nei gangli fondamentali del tessuto socio-culturale.
L’Italia entrata tra le prime potenze industriali, l’Italia della scienza e della tecnologia, l’Italia della creatività e dello stile, si è costruita anche grazie al solido apporto di élites femminili estranee ad ogni mentalità servile, che affondavano le loro radici nei salotti, nelle città, sulle montagne dove le combattenti liberali contro il nazifascismo avevano compiuto il loro apprendistato alla vita civile.
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