Da Repubblica del 30 maggio
Fino al 1973 era abate nullius, cioè non dipendente da nessun vescovo ma solo dal Papa, alla basilica di San Paolo Fuori le Mura a Roma, Teologo ascoltato da Paolo VI, il più giovane italiano al Concilio Vaticano II. Poi l’estromissione, arrivata dopo la denuncia delle collusioni fra Chiesa e poteri forti, la presa di posizione a favore del divorzio, la dichiarazione di voto per il Pci. Le sue omelie erano come fuoco, a favore della Chiesa dei poveri e contro il capitalismo. Allora era una voce che non si poteva ignorare. Oggi dom Giovanni Franzoni (“dom”, dal latino dominus, è predicato d’onore attribuito ai monaci benedettini), classe 1928, è un prete ridotto allo stato laicale ma non scomunicato, fra i primi animatori delle Comunità di base che cercano di cambiare le strutture della Chiesa senza una bandiera che connoti il loro status di credenti. La sua Comunità ha sede a Roma in un locale spoglio ma dignitoso di via Ostiense. Tavoli di legno attorno ai quali ancora oggi Franzoni, con discrezione, concelebra messa con gli amici. Fra loro anche alcuni sacerdoti: spezzano il pane recitando l’anafora assieme. «Un cattolico marginale», si definisce lui stesso neLl'”Autobiografia” pubblicata da Rubbettino, defilato e, per anni, dimenticato dalle gerarchie. Anche se, due settimane fa, un segno per lui fausto è arrivato: alla presentazione del suo libro in Campidoglio è intervenuto, a sorpresa, anche Matteo Maria Zuppi, vescovo ausiliare di Roma.
Sono anni che Franzoni non indossa l’abito nero dei monaci benedettini. Vi ha rinunciato? «Me l’hanno strappato di dosso!», risponde. Gli occhi che hanno quasi perso l’uso della vista si spalancano. Il bastone vibra verso il cielo. Poi sorride: «Tutto accadde per un’illuminazione». Divina? «Credo di sì. In Vaticano mi denigravano. Dicevano che mi ero venduto al Pci. Una domenica in Basilica un giovane pregò perché suo figlio potesse crescere in una Chiesa dove non si fa speculazione finanziaria come aveva da poco fatto, con tanto di deplorazione pubblica da parte dell’Associazione Bancaria Internazionale, lo Ior. Paul Mayer, a quel tempo segretario dei Religiosi, reagì. Mi disse che visto che ero così “democratico” dovevo accettare le sue condizioni: sottoporre ogni atto pubblico al parere dei superiori. Presi tempo. In una riunione della Comunità si alzò Vincenzo Meale. Disse che dovevo obbedire perché altrimenti sarei stato l’Unico a pagare. Però, spiegò, “è certo che se accetta le censura, la mia esperienza con la Comunità finisce qui”. Fu un lampo, un’illuminazione appunto. Risposi: “Ho capito”. E il lunedì seguente dissi a Mayer che volevo dimettermi. E così ebbe inizio la mia nudità”. Prego? “Spogliato di ogni sicurezza, mi trovai fuori dall’apparato ecclesiastico. Certo, non ero ancora sospeso a divinis. Fu dopo che dovetti lasciare l’abito».
Dopo il Concilio la Chiesa aveva aperto al rinnovamento. Franzoni la pungolava, deciso a tornare sui testi biblici per recuperare la figura storica di Gesù e il suo autentico messaggio. Fu Pier Paolo Pasolini a scrivere di lui: «Non c’è sua predica che prendendo convenzionalmente il pretesto dal Vangelo o dalle Lettere di San Paolo, non arrivi implicitamente ad attaccare il potere». Ben altro dicevano oltretevere. Un giorno in Basilica gli mandarono l’abate Tonini, dei monaci Silvestrini. Disse ai monaci che vivevano con lui che il Papa piangeva per causa sua.
In pochi gli rimasero amici. Fra questi il cardinale Pellegrino. All’inizio del ’74 Franzoni aveva già lasciato la Basilica e abitava in un appartamentino di via Ostiense. Pellegrino andò oltre e alla domanda su perché fosse a Roma rispose: «Non ho niente da fare qui, sono venuto solo per chiederti scusa per come ti abbiamo trattato». Fu sempre nel ’74 che Il Tempo esultò così alla notizia delle sue dimissioni: «L’abate rosso si è messo da parte: speriamo che stia tranquillo». Ma fermo non stava. Girava l’Italia per il referendum sul divorzio. Il cardinale Poletti, vicario del Papa a Roma, gli disse di cercarsi una diocesi in cui incardinarsi. Lui trovò Frascati.
Poletti gli disse che era troppo vicina a Roma. «C’è un chilometraggio minimo, vostra Eminenza?», gli chiese Franzoni. Nessuna distanza era sufficiente. Così l’ex abate aprì una sua Comunità di base, senza attendere il placet di nessuno. Poletti preparò una lettera per chiedere spiegazioni. La recapitò presso la «sedicente Comunità cattolica di base». Fu l’unico appellativo, sedicente, che l’istituzione riuscirà a darle in tanti anni. La riduzione allo stato laicale avvenne il 4 agosto 1976. I motivi furono che Franzoni si era detto favorevole all’aborto «perché se esiste deve essere regolamentato», e aveva dichiarato la propria adesione al Pci. Quando arrivò la lettera Franzoni era a Nusco, in provincia di Avellino. Dice: «Andai in trattoria con i ragazzi. A metà del pranzo mi si bloccò lo stomaco, la gola. Non riuscii a deglutire nulla. Per oltre due anni ho fatto fatica a inghiottire cibo asciutto».
Da quel giorno Franzoni ha fatto una sua strada. Nessuno, entro le mura leonine, gli ha mai mandato un segnale. Anche per la messa celebrata da Ratzinger nel 2012 con i padri conciliari nessuno si è ricordato di invitarlo. Il cattolico marginale si è eclissato sempre più ai margini. Fino al lieve e inatteso gesto di due settimane fa.
Di Paolo Rodari
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