Da MF-Milano Finanza del 17 giugno
Oggi non sono molti i banchieri con intensi interessi culturali, capaci di dominare la storiografia e di vivere la storia economica mentre esercitano la loro «arte». Certamente, non è più il tempo dei Mattioli e dei Cuccia; le trasformazioni, semmai, hanno migliorato in generale le figure di manager, ma quelle classiche dei banchieri si sono ridotte. La cultura classica e scientifica viene spesso considerata un orpello per chi deve fare i conti con i bilanci e non, come sarebbe doveroso, un aiuto, attraverso l’apertura della mente, a far meglio proprio i bilanci. Ai «banchieri senza aggettivi», voluti da Einaudi con riferimento soprattutto alle propensioni politiche, starebbe bene l’ aggettivo «colti », inteso in senso classico cultus atque humanitas. Antonio Patuelli, che di recente ha pubblicato un saggio dal titolo «Nuova Europa o Neonazionalismo» (Rubettino), mostra, invece, una sintesi adeguata tra la sensibilità di studioso di scuola liberale e la praxis, cioè l’operare del banchiere e, da ultimo, del presidente dei banchieri italiani. Nella storia della formazione dell’Unione monetaria ed economica, fondamentale è il ricordo del pensiero di Carli e di Kohl che vedevano una unione economica incapace di reggere a lungo senza un’unione politica: è il tema con il quale ci confrontiamo in questi mesi e che ci richiama alla mente il grave errore compiuto quando si pensò che l’ «intendenza» (si legga: la politica) avrebbe seguito quasi automaticamente le truppe d’avanguardia (fuor di metafora: la moneta). Si sarebbe potuto ricordare anche Paolo Baffi che, quando ancora si progettava la moneta unica, mise in guardia contro quello che sarebbe successo nel caso di shock asimmetrici nei diversi Paesi e contro l’aggiustamento che, unificato il cambio, avrebbe interessato o il lavoro o il debito pubblico o entrambi, come puntualmente è avvenuto. Patuelli sposa decisamente la linea della maggiore integrazione europea per superare i rischi che, se cominciassero a materializzarsi, potrebbero portare verso una fase di accentuati fenomeni di neonazionalismo e di autarchia, che spingerebbero verso l’uscita dal libero mercato e dalla democrazia occidentale. Ma non gli sfugge che per prevenire questo scivolamento occorra riprendere il percorso verso l’unione fiscale e quella del mercato dei capitali, in assenza delle quali il rischio potrebbe essere l’aprirsi di una guerra economica. Se è anacronistica una Italietta chiusa nei suoi confini nazionali ugualmente anacronistica e autolesionistica è la permanenza di forti differenziazioni fiscali e burocratiche per le diverse giurisdizioni. È su questa base che egli colloca l’esigenza di arrivare, per le imprese e per le banche italiane, a una vera par condicio con le consorelle comunitarie, che agisca sulle regole e sul trattamento fiscale. Andare avanti, sembra di capire, solo mettendo ordine nel mare magnum delle leggi che regolano l’attività bancaria e finanziaria con il progetto, che Patuelli rilancia, di un Testo unico bancario (ed evidentemente anche finanziario) europeo, che riduca e razionalizzi la mole di normative e la molteplicità di legislatori in questo campo che sta alimentando una vera, intollerabile Babele. Il richiamo di una urgente opera che ricordi quella di Giustiniano è quanto mai calzante, dovendosi oggi, per di più, fare i conti con una produzione normativa primaria spesso redatta alla stregua della stesura di circolari. L’ autore analizza, attentamente, il rapporto tra etica, diritto ed economia; presta grande attenzione ai moniti del Pontefice; vaglia i passi compiuti con il progetto di Unione bancaria per trarne il convincimento che l’Europa necessaria è quella nella quale non sussista un permanente conflitto tra regole e sviluppo. La sua è la visione di un capitalismo regolato, in cui la norma disciplina i rapporti, ma supporta uno sviluppo corretto ed eticamente sostenibile. Non si tratta, per Patuelli, di difendere le sovranità nazionali o, all’opposto, di reclamare più Europa: insomma, occorre progredire lungo le linee tracciate, ma badando bene a rimediare agli errori compiuti. L’autore non mostra interesse nei confronti delle storture determinate, per esempio, dal Fiscal Compact e da altri accordi intergovemativi che sono stati conseguiti nell’impossibilità, per mancanza dell’unanimità, di modificare i trattati fondativi. Sta di fatto, però, che il Fiscal compact e altre intese che lo hanno preceduto confliggono proprio con i trattati ed è, quindi, necessario porvi rimedio; così come è giusto non impelagarsi nella questione delle sovranità da cedere o da condividere. Tuttavia, oggi, trasferire sovranità dei singoli Paesi significherebbe, in presenza delle gravi disfunzioni che il processo di integrazione sta evidenziando, attuare una vera e propria cessione, non una condivisione, che avrebbe bisogno di precise garanzie. In definitiva, Patuelli ha scritto un saggio che dovrebbe far discutere molto per le analisi, le indicazioni e la capacità di tenere il campo, dai Padri dell’Europa, alle vicende di questi giorni. Bisogna essergliene grati.
Di Angelo De Mattia
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