Da Superblog.Tgcom24.it dell’11 maggio
Andrea Angeli, marchigiano, professione “peacekeeper” per le Nazioni Unite, negli ultimi 30 anni è stato in prima linea in tutti i paesi dove ci fosse una crisi in corso. Portavoce delle principali missioni internazionali, dalla Bosnia al Kosovo, dall’Iraq all’Afghanistan. Qui negli ultimi due anni è stato “political adviser” per la Nato. Prima è stato al fianco del sottosegretario agli esteri Staffan de Mistura per cercare di risolvere la complicata vicenda dei due marò. Dopo “Professione peacekeeper” (2005) e “Senza pace” (2011) esce in questi giorni il suo terzo libro, Kabul Roma, andata e ritorno (via Delhi) (Rubettino editore 2016). Lo abbiamo incontrato e intervistato.
Perché un terzo libro?
“Non certo per regolare dei conti come troppo spesso si fa con i libri. Non c’è nessuna voglia di rivalsa, anche se la fine dell’incarico a Staffan de Mistura per la trattativa sui due marò è stata un momento di amarezza. Voglio mettere solo alcuni punti fermi in una vicenda complicata per chi un giorno volesse approfondirla o studiarla, dato che ci sono molte cose che ancora non si sanno. E poi volevo spiagare la figura del political adviser, una figura di dervizaione anglosassone, a metà tra militari e civili, che in Italia è poco conosciuta.”
Il peacekeeping nel mondo sempre più complicato e caotico di oggi ha ancora senso?
“Una volta quando appariva una jeep con la bandiera dell’Onu tutte le parti la rispettavano. Già in Bosnia non è stato più così. Oggi si è arrivati a missioni muscolari che non mi pare abbiano dato risultati migliori. Le vie del peacekeeping sono però infinite. Certo aspettarsi di risolvere tutti i conflitti sarebbe bello ma è sempre molto difficile.”
Un esempio potrebbe essere la missione in Afghanistan: successo o fallimento?
“Ci sono luci e ci sono ombre. Una missione così lunga certo non è un successo totale. Se pensiamo all’investimento di uomini e risorse che c’è stato dovremmo riflettere. Quando una missione funziona dopo poco tempo lascia alle autorità locali il compito di andare avanti da sole.”
Esempi di missioni riuscite?
“Mozambico, Angola, Cambogia, Timor Est, Salvador, Nicaragua…”
E in Libia oggi servirebbe una missione internazionale?
“La scelta migliore sarebbe quella di attendere un’autorizzazione dell’Onu, ma a volte aspettare troppo può essere rischioso. Più tempo le cose vanno male più è difficile recuperare la situazione come la Somalia dimostra. Il rischio è di trovarci uno altro stato fallito a poche miglia dall’Italia.”
Possiamo parlare di sconfitta della diplomazia per la vicenda dei due marò?
“Andare all’arbitrato internazionale, procedura lunga e complessa, è una sconfitta della diplomazia e della politica. Si poteva sperare in una soluzione più rapida.”
Quali sono stati gli errori principali nella gestione del caso?
“Ci sono stati alcuni errori iniziali su cui tutti sono d’accordo. Altre scelte molto criticate, come la riconsegna dei due militari all’India, erano obbligate, a meno di voler rendere non più credibile la parola dell’Italia a livello internazionale. Certo, se per esempio la magistratura fosse intervenuta in un certo modo, le cose sarebbero state diverse”.
Balcani, Iraq, Afghanistan… e ora?
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KABUL – ROMA, andata e ritorno (via Delhi)