Lo storico Eugenio Di Rienzo ricostruisce nel suo libro “Benedetto Croce. Gli anni del fascismo” i rapporti tra il grande filosofo e il regime. Soprattutto, fa luce sui motivi una scelta sofferta da cui scaturirono riflessioni importanti sul futuro del liberalismo
«Ho trovato Croce piuttosto abbacchiato di spirito e mi ha fatto male… Capisco che i tempi sono avvilenti, quasi senza speranza di vederli mutati, per noi di un’età avanzata! Ma quel quasi lascia uno spiraglio di luce – un alito di fede che non bisogna soffocare – perché lo spiraglio diventi breccia – l’alito, bufera che tutto travolga e distrugga».
Così Arturo Toscanini, in una lettera del 10 aprile 1937 all’amata Ada Mainardi, ricorda un incontro con Benedetto Croce in casa del conte Alessandro Casati. All’epoca in cui scriveva Toscanini, il filosofo napoletano era già da lungo tempo considerato come l’oppositore più prestigioso del fascismo sul piano etico-ideologico e politico. Nel periodo fra il 1932 e il 1938, in particolare, Croce, dopo una riflessione lunga e non indolore, era giunto alla conclusione che le teorie dello «Stato Potenza», partorite dalla cultura tedesca, e la ripresa ipernazionalistica della dottrina hegeliana dello Stato etico avevano giocato una grande parte nell’invelenire i conflitti dei popoli, contribuendo alla distruzione e allo sconvolgimento della civiltà mondiale.
Già nel 1925, tuttavia, all’interno della nota Libertà e dovere, il filosofo aveva delineato in maniera decisa il passaggio verso una concezione piena e compiuta della libertà, concepita quale principio generale ed eterno della vita morale e civile, che poteva riformularsi in termini di concrete proposte istituzionali, economiche, sociali, politiche, in cui liberalismo e democrazia dovevano avvicinarsi, almeno temporaneamente, pur senza confondersi, giungendo perfino ad allearsi contro il comune nemico rappresentato dalla dittatura per tutelare la loro sopravvivenza
La nota Libertà e dovere anticipò il contributo del 1927, La concezione liberale come concezione della vita, i cui temi sarebbero giunti a compimento tre anni più tardi, nella relazione Antistoricismo, presentata al settimo Congresso Internazionale di Filosofia di Oxford il 3 settembre 1930. L’intervento suscitò una profonda impressione in Thomas Mann, nei punti in cui Croce avanzava, per la prima volta, il tema della «religione della libertà» e del «senso storico come civiltà e cultura» quali unici antidoti al culto «della forza per la forza».
La compiuta maturazione del liberalismo crociano arrivava, quindi, al termine di un lungo percorso il cui svolgimento è stato magistralmente ricostruito da Eugenio Di Rienzo, docente di Storia moderna presso la Sapienza di Roma, nella monografia Benedetto Croce. Gli anni del fascismo, edita da Rubbettino.
Nella nota del 1927, rileva Di Rienzo, Croce iniziò a far poggiare il suo liberalismo su basi più solide. Qui veniva ridotta indirettamente, ma non velatamente, all’assurdo la vulgata della «rivoluzione fascista»: non di rivoluzione infatti si trattava, ma solo di un «mero, transitorio moto di reazione».
Risultava pertanto irrealistica la pretesa dei sostenitori del fascismo di assicurare al nuovo regime una durata non momentanea che fosse in grado di garantirgli una rinascita successiva a una possibile caduta. Dopo la presa di potere di Mussolini, sosteneva il filosofo, il «declinare del sole del liberalismo» non aveva segnato il suo definitivo inabissarsi al disotto dell’orizzonte della storia ma solo una temporanea eclissi, con la quale quel movimento aveva pagato doverosamente il prezzo dei suoi sbagli, «dei suoi traviamenti ideali, delle sue troppe e troppo gravi fiacchezze morali e politiche».
Croce, dunque, era perfettamente consapevole delle debolezze e degli errori di valutazione che avevano condotto lo Stato liberale, nato con l’Unità, a infrangersi contro la dura realtà della dittatura.
Illusoria, infatti, si era rivelata la pretesa della classe dirigente prefascista di sfruttare il movimento mussoliniano come «un ponte di passaggio per la restaurazione di un più severo regime liberale, nel quadro di uno Stato più forte», per usare le parole che lo stesso Croce aveva adoperato in occasione di un’intervista da lui concessa il 10 luglio 1924 al Giornale d’Italia. In tale circostanza il filosofo aveva esposto le ragioni che lo avevano indotto a votare la fiducia al governo Mussolini il precedente 24 giugno: rovesciare l’esecutivo vigente, a suo dire, avrebbe significato avallare una scelta dannosa e incomprensibile, anche se, negli ultimi mesi, il gabinetto mussoliniano aveva errato gravemente perché, invece di accontentarsi di ridare vigore allo Stato liberale, pareva essere stato colto dall’ambizione di fondare un «nuovo tipo di Stato» e di inaugurare «una nuova epoca storica».
La scelta di Croce fu aspramente rimproverata da una parte non piccola degli oppositori del regime. Di Rienzo ricorda, in particolare, il tempestoso colloquio avvenuto il giorno prima del voto di fiducia fra il grande intellettuale napoletano e il celebre orientalista Giorgio Levi Della Vida. Questi aveva affrontato Croce a muso duro, inaugurando argomenti polemici destinati, dopo il luglio 1943, a essere ripetuti tante volte «con l’andamento di un monotono mantra»:
«La realtà è diversa. La realtà è che voi, Croce, e con voi tanti altri, avete plaudito entusiasticamente al fascismo, passando sopra alle sue infrazioni della moralità e della legalità con uno “storicismo” un po’ sbrigativo, perché avete veduto in esso la salvezza dal paventato trionfo del comunismo, perché esso difendeva, nella carenza dello Stato, del quale invocavate l’intervento, gli interessi dei “benpensanti”, vale a dire dei benestanti […].
Che ve ne rendiate conto o no, col vostro voto di fiducia voi fate gettito dell’ultima carta che potrebbe giocarsi dagli organi costituzionali dello Stato, voi perdete l’ultima occasione di restaurare, non a parole, ma nei fatti, la giustizia e la libertà delle quali il fascismo ha fatto scempio e delle quali continuerà a far scempio in avvenire, grazie a una vostra complicità della quale sarà difficile che, domani, la storia vi assolva».
Ma la decisione di concedere quel voto di fiducia, afferma Di Rienzo, non fu da parte di Croce un errore frutto d’ingenuità, d’imperizia o, peggio ancora, di egoistico calcolo di grande latifondista: essa scaturì, invece, da un sofferto e lacerante travaglio interiore, che alla fine rese quell’atto politicamente inevitabile. Lo apprendiamo proprio dai Taccuini del filosofo. Qui, alla data del 26 giugno, Croce chiarisce le ragioni del suo sostegno al gabinetto in carica, che si accompagnò comunque al rifiuto di subentrare a Gentile come ministro della Pubblica Istruzione, contrariamente al desiderio dello stesso Mussolini: «Abbiamo dato il voto di fiducia al governo; ahi! con quanta lotta interiore mia e della più parte dei votanti. Ma gli stessi oppositori, nelle loro critiche, avevano deprecato, ora, una crisi».
Doveroso appare, a Di Rienzo, mettere in risalto l’intima coerenza dell’azione politica di Croce prima, durante e dopo il Ventennio, e soprattutto l’incontestabile onestà intellettuale del filosofo, che lo indusse a riconoscere, al termine della seconda Guerra mondiale, quelle che erano le sue effettive, e non immaginarie, responsabilità nell’affermazione della dittatura. Di più: egli volle che i suoi interventi di sostegno a Mussolini fossero riprodotti integralmente nella raccolta dei suoi scritti.
Le pagine di Benedetto Croce. Gli anni del fascismo ci restituiscono, dunque, la figura di un intellettuale e politico ligio a una bene intesa strategia conservatrice: persuaso della necessità di associare in un circolo virtuoso, anche in virtù di un forte controllo sociale a tratti non esente da qualche punta di autentico autoritarismo, il mantenimento dello status quo a un ponderato e graduale disegno riformista, «idoneo ad assicurare al nostro Paese, attraversato da tante debolezze strutturali, una crescita economica e civile senza scosse e senza traumi».
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