Da La Repubblica Ed.Napoli del 26 aprile
Le risposte che suggerisce Mariano D’Antonio al titolo del libro da lui curato, “Chi ha cancellato la questione meridionale?” (Rubbettino 2015, euro 15), chiamano in causa responsabili diversi: la crisi economico-sociale, la classe politica che l’ha fatta scomparire dall’agenda di governo, l’abbassamento del sentimenti di coesione tra il Nord e il Sud d’Italia. Certo D’Antonio avrebbe potuto indicare altri volenterosi, anche se a volte incoscienti, rottamatori: per esempio un nutrito gruppo di intellettuali (economisti, filosofi, politologi, storici soprattutto) che, in anni non più tanto recenti, hanno teorizzato “l’obsolescenza”, se non addirittura la scomparsa, della questione meridionale perché hanno considerato ormai superato il dualismo tra Nord e Sud.
L’attenzione di D’Antonio e della sua équipe, formata da Matteo Marini, Sonia Scognamiglio, Annalisa Marini, Antonio Russo, Lucia Cavola, Achille Flora, Giovarmi Laino, Francesco Pastore, Sara Gaudino, Giuseppe Lionello, Roberto Celentano, si concentra su indici alquanto differenti rispetto a quelli adottati dalla Svimez, che misurano il divario tra Nord e Sud col prodotto per abitante, il ruolo della spesa pubblica, il peso delle istituzioni finanziarie nel sostegno degli investimenti privati, il carattere esclusivo del movente del profitto. Uno degli attacchi più frequenti alle politiche per il Mezzogiorno da parte di movimenti e partiti rappresentativi soprattutto dell’ area settentrionale del paese consiste nell’accusa di prelevare più risorse al Nord per darle al Sud: di qui la parola d’ordine della Lega di amministrare in sede regionale il 75 per cento del prelievo. A questo attacco, secondo Mariano D’Antonio, non si può rispondere esclusivamente invocando la povertà e il maggiore fabbisogno del Mezzogiorno. La legittimità del sistema fiscale come più equo redistributore di risorse può fondarsi esclusivamente sul buon governo del territorio e sull’oculata gestione dei servizi.
Lo spirito del volume è il rilievo attribuito al capitale sociale come fattore di sviluppo economico e quindi alla sua debolezza come ostacolo allo sviluppo. È il corto circuito tra il debole spirito civico di ampie fasce della popolazione meridionale, l’inefficienza delle istituzioni rappresentative, il fiacco e incapace governo locale. In sostanza gli autori dei saggi contenuti nel volume fanno propria la tesi espressa oltre un ventennio fa, precisamente nel 1993, l’anno dell’elezione diretta dei sindaci, da Robert Putnam. La tesi è stata ripresa poi da indagini più recenti che hanno arricchito con altre domande il questionario proposto da Putnam: rispetto del principio di legalità, efficienza delle istituzioni soprattutto in tema di istruzione e assistenza sanitaria, trasparenza e controllo delle decisioni, livello della corruzione. Dalle risposte dei cittadini risulterebbe che Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, fra le duecento regioni europee del campione, sono agli ultimi posti quanto a qualità del governo regionale.
Le esperienze analizzate nel libro prefigurerebbero «un’inversione di rotta nella politica di sviluppo del Mezzogiorno fuoruscendo dal vecchio paradigma, caro ai politici e ad alcuni meridionalisti, di reclamare maggiori, indiscriminati finanziamenti pubblici».
Una cooperativa agroalimentare di successo in Calabria; il microcredito a favore di famiglie e piccole imprese meridionali; il sostegno, per ora solo allo stato embrionale, alla piccola industria; la promozione di imprese sociali; la più oculata gestione dei fondi strutturali europei più che essere esempi di «inversione di rotta», sono tracce di un ottimismo della volontà che stenta a farsi sistema. Bisogna evitare il rischio di mitizzare esperimenti su base locale. Resta ancora assolutamente inattuata l’esigenza di un diverso peso del Mezzogiorno nella politica nazionale, dell’identificazione di una terza via tra il vittimismo del Sud che chiede più trasferimento di risorse, e il sentimento nordista della “Bassa Italia” come “palla al piede”.
di Aurelio Musi
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