Pubblichiamo l’introduzione del libro “Profughi del clima”, firmato dalla giornalista e collaboratrice di La Stampa-Tuttogreen Francesca Santolini, edito da Rubbettino (12 euro) che esce oggi nelle librerie
Il libro affronta quella che potrebbe trasformarsi nella più grave crisi dei rifugiati dalla Seconda guerra mondiale, con flussi migratori che già investono il nostro Paese e che potrebbero avere dimensioni senza precedenti.
Nelle migrazioni, infatti, sono e saranno sempre più cruciali gli esodi provocati dagli effetti dei cambiamenti climatici. Eppure, nonostante l’evidenza, il tema e pressoché assente dalle priorità delle istituzioni nazionali e internazionali.
Quella che Zygmunt Bauman pochi anni fa definiva «la società liquida» (e forse non si aspettava di essere superato da formule successive come «società emotiva» o «società dell’istante») sembra incappata in una strettoia della storia, nella quale il potere politico, l’opinione pubblica, le classi dirigenti accelerano tutte insieme, intasando la via e bloccando sia le politiche nazionali sia il sistema internazionale.
La coscienza sociale sembra intossicata dall’eccesso di informazione e di dibattito scatenati dalla rete, e la politica spesso risulta in difficoltà nell’indicare le vere emergenze del nostro tempo e nel prendere le decisioni necessarie per farvi fronte.
Da qui gli incredibili ritardi che si registrano su norme e interventi che potrebbero permettere di gestire il fenomeno migratorio con politiche a lunga scadenza, garantendo lo status di profugo e il diritto d’asilo a chi fugge da territori devastati dal clima per non morire di fame o malattie o travolto dalla terra stessa che si trasforma, con l’esondazione dei bacini idrici, gli smottamenti montani, l’espansione delle zone desertiche.
E evidente che la comunità internazionale (Italia compresa) ha il dovere di preoccuparsi e occuparsi del contrasto alla nuova frontiera del traffico di esseri umani rafforzando politiche di integrazione e gestione condivisa. Ma resta impressionante il disinvolto ritardo accumulato nel predisporre un piano di azioni concrete per frenare i cambiamenti climatici.
Eppure, la svolta nella politica internazionale dell’ambiente era stata già definita a Rio de Janeiro nel 1992, e poi, nel 2015, una grande convenzione internazionale ha solennemente firmato accordi che stabilivano precisi impegni da attuare in tempi rapidi. Da allora, però, la politica di concreta attuazione degli impegni e proceduta con un continuo stop and go, fra scambi diplomatici da un summit all’altro.
I dati restano da allarme rosso, come ci confermano gli allarmi che non provengono più soltanto da ecologisti e naturalisti, biologi e fisici, climatologi e meteorologi ma ormai anche dagli economisti e broker di Wall Street, che non sono certo figli dei fiori in cerca di rapporti idilliaci con la natura, ma freddi analisti della contingenza economica.
Secondo uno studio della Banca Mondiale, gli effetti del cambiamento climatico in atto nelle tre regioni più densamente popolate del mondo metteranno in moto, entro il 2050, 143 milioni di migranti del clima come conseguenza di alluvioni, siccità, fame, carestie, epidemie, devastazioni di intere aree urbane per eventi meteo estremi che porteranno a incrementi mai registrati delle migrazioni forzate.
Ma non è tutto.
Per l’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, le variazioni climatiche e il fattore ambientale sono e diventeranno sempre più una minaccia alla sicurezza.
Ci sono aree più esposte, come l’Asia centrale, dove la mancanza d’acqua comincia a provocare spostamenti di popolazioni con conseguenze su molte economie locali con un impoverimento che incentiva l’esodo. L’Africa subsahariana occidentale, fortemente colpita dalle variazioni climatiche e
in rapido sviluppo demografico, e un altro hot-spot dove gli effetti amplificano tensioni sociali e debolezze strutturali, destabilizzando comunità già vulnerabili.
Per la prima volta anche il World Economic Forum, gotha dell’economia mondiale, riconosce il cambiamento climatico come il rischio più grande del pianeta. Secondo il rapporto “Global Report”, la «mancata mitigazione e il mancato adattamento al cambiamento climatico sono il rischio globale numero uno in termini di impatto, mentre il pericolo più probabile e costituito dalle migrazioni involontarie su larga scala, che registrano quest’anno la più forte crescita in termini di impatto e di probabilità».
Su questo, anche l’ultimo rapporto dell’Ipcc, l’organismo voluto dall’Onu che riunisce duemila scienziati di tutto il pianeta, è stato chiaro: «[…] il cambiamento climatico e destinato ad aumentare le migrazioni delle persone. Popolazioni che mancano di risorse per una migrazione pianificata sono maggiormente esposte ad eventi meteorologici estremi, in particolare nei Paesi in via di sviluppo a basso reddito. I cambiamenti climatici possono indirettamente aumentare i rischi di conflitti violenti amplificando i ben documentati “driver” di questi conflitti, come la povertà e gli shock economici».
A confermare il ruolo primario delle variazioni climatiche nei flussi migratori che si muovono dal Sahel africano verso l’Italia e il recente studio pubblicato sulla rivista internazionale Environmental Research Communications dall’Istituto sull’inquinamento atmosferico del Consiglio nazionale delle ricerche. Secondo questa ricerca, gran parte del flusso migratorio verso l’Italia è già oggi causato da fenomeni meteo-climatici che rappresentano uno dei vettori principali degli spostamenti di massa.
Ma quand’è che un semplice migrante diventa «migrante climatico»? La natura e la novità del fenomeno, insieme alle troppe semplificazioni e incoerenze, hanno reso finora impossibile un accordo internazionale che stabilisca una definizione condivisa. Non e dunque un caso se non esiste una definizione ufficialmente riconosciuta di «migrante ambientale».
L’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, ad ogni modo, ha già fornito una «definizione di lavoro» ancorché generica: «I migranti ambientali sono quelle persone o gruppi di persone che, a causa di improvvisi o graduali cambiamenti nell’ambiente che influenzano negativamente le loro condizioni di vita, sono obbligati o scelgono di lasciare le proprie case temporaneamente o permanentemente, muovendosi all’interno del proprio paese o oltrepassando i confini nazionali».
Tuttavia, la categoria del «migrante ambientale» o, più opportunamente, di «rifugiato ambientale», ancora non esiste nel diritto internazionale e questo e anche un alibi per non occuparsene. Ciò significa che le persone che migrano per ragioni ambientali o fuggono da eventi climatici sono fantasmi, non sono tutelate dal diritto internazionale e, dunque, non possono beneficiare dello status di rifugiato che la Convenzione di Ginevra del 1951 concede solo a chi e perseguitato per razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un gruppo sociale o per le proprie opinioni politiche. Dell’ambiente e delle conseguenze del clima, incredibilmente non vi è ancora traccia. Come non c’è traccia di un piano serio con politiche e investimenti per l’adattamento e la mitigazione del rischio clima nella nostra Penisola.
In questo libro leggerete di questa emergenza che sta già riversandosi su di noi, e prima ancora sulle popolazioni costrette a lasciare le zone del mondo che il clima ha reso ormai inabitabili. E leggerete della strana incapacità dell’informazione e della politica di rendersi conto dell’emergenza e di prospettare possibili rimedi.
Leggerete di una gigantesca onda di risacca che sta per rovesciarsi su chi, con gli occhi chiusi e le cuffie ben infilate nelle orecchie, si ostina a far finta che il mare sia calmo.
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