Vangelo e ricchezza
Nuove prospettive esegetiche
a cura di Dario Antiseri, Francesco D'Agostino, Angelo Petroni
“Una Chiesa povera per i poveri”. Questo tema, nella hit parade dei tormentoni del Regnante Pontefice, è forse secondo solo alle ripetute, insistite, giornaliere, moleste dichiarazioni riconducibili al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ma, esattamente come queste ultime, anche “una Chiesa povera per i poveri” è un’affermazione dottrinariamente, teologicamente, storicamente del tutto inconsistente, pura retorica (nel senso negativo che questo termine ha purtroppo assunto nei tempi presenti), falso intellettuale: la Chiesa, quella Una, Santa, Cattolica, Apostolica, Romana – altre non ve ne sono – non è mai stata povera. Di più: nella storia della Chiesa, il pauperismo oggi invocato ipocritamente da molti (scrive Nicolás Gómez Dávila: “Da sempre patrocinare la causa del povero è stato il mezzo più sicuro per arricchirsi”) è sempre stato considerato un segnale di eresia, una puzza di zolfo che annunciava eterodossie, se non rettamente inteso come scelta personale o di Ordini, come quello dei Francescani, ma non assolutizzabile come regola generale per la Chiesa tutta e per i fedeli. Chi urla alla Chiesa di vendere tutti i suoi beni e di darne il ricavato ai poveri è in palese malafede.
La domanda “deve la Chiesa essere povera?”, rimanda tuttavia a un’altra domanda: “Gesù Cristo era povero?”. Infatti Gesù non è solo il doveroso exemplum della Chiesa, ma Questa stessa è Corpo Mistico di Cristo. Dunque: Gesù Cristo era povero?
Ricorriamo a fonti che basano le loro argomentazioni sui Vangeli e sulla conoscenza della società ebraica del tempo nelle sue articolazioni sociali, politiche e religiose, intrisa di ellenismo e di cultura romana (come dimostra la figura di San Paolo), e certamente non misera. Sul tema della presunta povertà di Cristo hanno scritto nei tempi recenti, tra altri, Vittorio Messori e Monsignor Rino Fisichella. Da segnalare Beniamino Di Martino, sacerdote, docente e storico che al tema ha dedicato diversi, convincenti testi: La povertà di Cristo, reperibile in rete, La virtù della povertà, Leonardo Facco editore, Ricchezza e Povertà – Esegesi dei testi evangelici, Editrice Domenicana Italiana. E poi ancora Angelo Tosato autore de Vangelo e ricchezza, Rubettino Editore, il giornalista Luigi Accattoli e il teologo Ariel S. Levi di Gualdo con il suo testo “Contro la moderna idolatria ideologica della povertà: Gesù non era povero”, pubblicato in L’isola di Patmos, reperibile in rete.
La risposta è unanime: Gesù non era affatto povero. Usando impropriamente un linguaggio moderno, la Sua famiglia, da parte di Giuseppe, deve essere considerata “aristocratica” in quanto di origine davidica. Maria era, molto probabilmente, appartenente alla stirpe di Aronne senza dover escludere anche per Lei antenati davidici. La nascita in una stalla avvenne semplicemente perché gli “alberghi” dell’epoca erano tutti pieni e Maria, prossima al parto, cercava un angolo più riservato e discreto che non i rumorosi stanzoni delle locande dell’epoca.
Probabilmente Giuseppe e Maria possedevano beni immobili a Betlemme oltre che, ovviamente, a Nazareth. Inoltre, a prescindere dalla situazione patrimoniale precedente, i Re Magi portarono alla Sacra Famiglia, com’è ben noto, un piccolo (?) tesoro in oro, incenso e mirra.
La posizione sociale di Giuseppe non era quella di “un povero falegname”. Vittorio Messori attesta: “Giuseppe apparteneva alla classe media o agiata ed era – come attestano antiche fonti cristiane – padroncino di una piccola impresa di teknoi, di lavoratori del legno”. Secondo altri Giuseppe, e quindi anche Gesù, era un costruttore. Beniamino Di Martino considera Gesù, prima del suo periodo pubblico, “un imprenditore”.
L’appartenenza di Gesù al ceto benestante è testimoniata anche dalla sua prima uscita pubblica: le nozze di Cana. Gli sposi e le loro famiglie, amici se non parenti di Gesù, offrono una cena sontuosa, con la presenza persino di un maestro di cerimonia.
I primi seguaci di Gesù, come Lazzaro, non sono affatto poveri, come non lo sono i Discepoli. Concedendosi un anacronismo nel linguaggio a fini esplicativi, così scrive Beniamino Di Martino: “Gesù […] scelse i suoi stretti collaboratori tra i borghesi mediamente benestanti. La provenienza sociale degli apostoli e dei principali discepoli e seguaci (ad esempio Lazzaro) era altolocata”. Simone e Andrea non erano “poveri pescatori”, ma imprenditori, proprietari di barche e di reti.
Assai significativo l’episodio di Maria, per l’evangelista Giovanni sorella di Lazzaro, che unge i piedi di Cristo con preziosissimo olio profumato e, per questo, viene ipocritamente rimproverata da Giuda Iscariota: “Perché tutto questo spreco di olio profumato? Si poteva benissimo vendere a più di trecento denari e darli ai poveri”. (Gv 12,5) Critica prontamente e anche bruscamente respinta da Gesù. Ecco un interessante insegnamento: il primo pauperista della storia del Cristianesimo è Giuda Iscariota. Altrettanto noto, sotto la Croce, è l’episodio dei soldati che si giocano a dadi la tunica di Cristo, assai preziosa perché “era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo”.
E, a proposito dei Vangeli, è vero che in Luca troviamo scritto: “Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio” (Lc 6,20), ma troviamo anche l’implicita correzione di Matteo: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,3).
Sull’aspetto di Gesù, il suo censo e su quella che Levi di Gualdo definisce “poverolatria cristica”, possiamo sintetizzare citando l’irritazione di Monsignor Rino Fisichella contro una certa Sua rappresentazione abbruttita e pauperistica: “Non mi piace questa immagine che affiora spesso in campo letterario: di un Gesù piccolo, basso, brutto, malvestito e sporco. Sulla base delle Scritture e della Sindone sappiamo invece che era alto e che vestiva in modo accurato”.
D’altronde, è assai azzardato trarre dal Vangelo un insegnamento pauperista. Ci ricorda infatti don Beniamino Di Martino in Povertà e ricchezza: “Contro l’avidità, non contro la ricchezza. Così potremmo sintetizzare l’insegnamento che proviene da questo insieme di testi evangelici […]: il biasimo è verso l’avidità e l’avarizia, non contro la ricchezza e il benessere”. In Contro il politicamente corretto edito da Giubilei Regnani, puntualizzano opportunamente Ettore Gotti Tedeschi e Enzo Pennetta: “In nessuna parte del Vangelo si intende che Gesù disprezza il ricco in quanto ricco, ma solo perché egoisticamente indifferente al povero”. E ancora: “Eppure qualcuno nella Chiesa continua a demonizzare la ricchezza, persino spiegando che la sua cattiva ripartizione (iniquità) è origine dei mali, anziché esserlo il peccato”.
L’idea di una Chiesa povera e “comunistica” viene spesso proiettata dai modernisti sulla Chiesa delle origini, anche sulla base di opinioni sulla ricchezza di alcuni Padri della Chiesa e di una cattiva lettura di alcuni scritti degli Atti. In una delle migliori Enciclopedie cattoliche, Somma del cristianesimo, esposizione sistematica della dottrina e della storia cristiana, a cura di padre Raimondo Spiazzi O.P., questa idea viene confutata: “Alcuni moderni leggendo frasi patristiche con cui si rimproverano i ricchi e si ammoniscono sui loro doveri, hanno parlato e scritto di un comunismo praticato all’origine dalla Chiesa. Per chi abbia anche solo una modesta cultura patristica è assai facile notare l’erroneità di questa concezione”. Anche gli episodi di libere donazioni di beni alla Chiesa di Gerusalemme, riportate negli Atti, sono da intendere come un “fenomeno puramente transitorio suggerito dalle particolari esigenze del momento”, un provvedere “in una maniera tutta particolare alle esigenze locali e del momento”.
Il periodo in cui più virulenta è l’infezione pauperista è il medioevo, ad opera di eretici conclamati, i bogomili, i patari, gli albigesi, Arnaldo da Brescia, Valdo, il laico Gherardo Segarelli e il suo movimento degli “apostoli e apostolissae”. Suo seguace fu Dolcino (che Dante destina all’Inferno, nella bolgia dei seminatori di discordia e degli scismatici), ispirato da Gioachino da Fiore. Dolcino che, con i suoi seguaci armati, saccheggiava e massacrava perseguendo il suo ideale di comunismo utopico, è tra l’altro diventato un eroe della sinistra, commemorato anche da Dario Fo e Franca Rame. E poi Wyclif, Huss e una miriade di altre sette eretiche, come gli utraquisti, i taboriti, gli adamiti, che praticavano il nudismo e la promiscuità dei sessi.
Un capitolo a parte è rappresentato dalla vicenda dei Francescani. Nel 1323 il Capitolo dell’Ordine, dominato dai pauperisti estremi, i cosiddetti Spirituali, affermò come verità di fede l’assoluta povertà di Gesù e dei discepoli, fece della povertà più rigida l’essenza della perfezione evangelica, ne esigette l’osservanza non solo da parte dei Frati e dell’Ordine, ma da tutti come condizione di salvezza e come fattore di rinnovamento della Chiesa. Queste tesi erano già state bollate come eretiche. Papa Giovanni XXII le condannò duramente con la bolla Cum inter nunnullos e altri documenti successivi e depose il Ministro Generale dell’Ordine Michele da Cesena. I Francescani, tra i quali prevalse la ben più moderata e ubbidiente corrente dei Conventuali, si adeguò, tranne una piccola parte, i Fraticelli, che si ostinarono nella ribellione, assunsero posizioni ancor più estreme, dichiararono eretico il Papa, ne contestarono i poteri e s’opposero al sacerdozio e alla gerarchia.
Tra l’altro non è inutile ricordare come San Francesco per le chiese dell’Ordine volesse arredi sacri ricchi e preziosi. D’altronde, la Basilica di Assisi non è certo nuda e semplice come una chiesa protestante. Da più parti si è osservato che la particolarissima vocazione alla povertà predicata da San Francesco non può essere estesa alla Chiesa e alla vita cristiana in generale. Osserva poi realisticamente Beniamino Di Martino: “Alla prova della storia la povertà materiale radicale di San Francesco non ha retto. Le grandi opere e le enormi proprietà dell’imponente famiglia francescana stanno a dimostrare che è impossibile vivere solo con un saio sdrucito”.
San Carlo Borromeo viveva personalmente in sobria povertà, nonostante la sua nascita principesca, ma riempì le chiese della Diocesi con opere d’arte, meravigliosi arredi liturgici, e i suoi riti erano ricchi e fastosi, perché a maggior gloria di Dio.
Torniamo allo slogan “una Chiesa povera per i poveri”. Come potrebbe una Chiesa senza mezzi aiutare i poveri? E ancora: avremmo, in Italia soprattutto, ma anche in Europa, quello sterminato patrimonio artistico, architettonico e culturale lasciatoci dalla Chiesa che ci circonda come un mare di Bellezza, se avessero prevalso gli Spirituali e i Fraticelli ? Eppure, il pauperismo sembra essere diventato una delle colonne portanti del modernismo e del progressismo conciliare e postconciliare fino alla famigerata Teologia della Liberazione e fino alle dichiarazioni, agli atteggiamenti, alle scelte e ai comportamenti di papa Francesco.
Anche in questo era stato buon profeta Giovannino Guareschi, come ci ricordano Gnocchi e Palmaro in una pagina di Cattivi Maestri: nell’ultimo libro della serie di Mondo Piccolo, Don Camillo e don Chichì, viene riportato un breve dialogo tra il pretonzolo progressista don Chichì e don Camillo, che è una sintesi del retto insegnamento, teologico e pastorale, sulla povertà: “La Chiesa di Cristo è la Chiesa dei poveri perché solo dei poveri è il Regno dei Cieli” urla don Chichì. E don Camillo di rimando: “La povertà è una disgrazia, non un merito. Non basta essere poveri per essere giusti. E non è vero che i poveri abbiano solo diritti e i ricchi solo doveri: davanti a Dio tutti gli uomini hanno solo doveri”.
Tra l’altro, è molto significativo che la condanna della ricchezza in generale e di quella della Chiesa in particolare, ricchezza che è giusta, necessaria e utile, si accompagni spesso anche al rigetto della Bellezza, specie se riferita agli edifici, alle chiese, ai riti, ai paramenti, agli oggetti sacri. C’è una terribile, mefistofelica coerenza, in questo. Infatti, è anche grazie alla ricchezza della Chiesa se è possibile un’estetica sublime del Sacro che rimanda e allude all’identità metafisica del Vero, del Bello e del Buono. Rifiutare l’estetica, in nome di un’intellettualistica, orgogliosa e compiaciuta “povertà” e “semplicità”, significa rifiutare il portato ontologico e metafisico, e non solo didattico e anagogico, della Bellezza e dei simboli, con la conseguenza di una desacralizzante banalizzazione, di una sciatteria liturgica e di un semplicismo dottrinario tipicamente protestante. L’estetica non è orpello, ma attributo del Vero e il rifiuto del Bello è rifiuto della Verità. Una Chiesa in cui prevale l’ideologia (ché tale è) pauperista non è solo una Chiesa povera, ma anche una povera Chiesa dimentica dello splendore di Cristo Re, trionfante sul mondo e sul peccato.
Altre Rassegne
- apostatisidiventa.blogspot.com 2019.08.29
Povera Chiesa!