Quale futuro ci aspetta dopo il Covid-19? Affari ne parla con Gianluca Ansalone, docente all’Università Tor Vergata e autore di “Geopolitica del contagio”
Si è detto un’infinità di volte: il mondo dopo il Covid non sarà più lo stesso. Per la verità, esso non è già più lo stesso, noi, tutti noi – individui e collettività – non siamo più quelli di prima della pandemia. E non si tratta di una novità per la Storia: da sempre, infatti, malattie e catastrofi hanno segnato dei veri e propri spartiacque nel corso degli eventi, abbattendo sistemi (politici, sociali ed economici) per gettare le basi di nuove (e a volte migliori) costruzioni. È stato così con l’epidemia dilagata in Europa a metà Trecento: un flagello, quello della peste nera, che secondo alcune stime avrebbe portato via addirittura un quarto della popolazione complessiva, suonando il requiem della vecchia architettura feudale e aprendo le porte all’incipiente Rinascimento.
Ovviamente non per questo le crisi (men che meno quelle sanitarie) sono da considerarsi in qualche modo utili. Il punto vero, ammettendo le sofferenze e gli stravolgimenti individuali e collettivi che esse comportano, consiste nel saperne leggere la cronologia: nell’individuarne i prodromi, nello scoprire e comprenderne le cause, specie quando ancora in nuce. E questo non a scopo meramente storiografico ma con un fine concreto, molto concreto: evitare di farci cogliere impreparati quando si innescherà la prossima.
Quali riflessioni rende improcrastinabili l’esperienza del virus cinese? Affaritaliani.it ne parla con il Professor Gianluca Ansalone, Docente di Geopolitica e Sicurezza presso l’Università di Roma Tor Vergata e il Campus Biomedico, nonché Autore del recentissimo saggio “Geopolitica del contagio – il futuro delle democrazie e il nuovo ordine mondiale dopo il Covid-19” (edizioni Rubbettino).
Professor Ansalone, qual è la genesi di questo libro? Che cosa L’ha spinta a scriverlo?
L’emozione chiave che mi ha spinto è stata il senso di urgenza. Ho voluto tracciare una traiettoria di analisi, nel tentativo di alzare lo sguardo verso l’orizzonte per provare a capire che cosa ci aspetti. La buona notizia consiste nel fatto che in discussione c’è solo il “quando”, non il “se”: perché, da questa tragica esperienza, ne usciremo.
Quali sono le tappe, i passaggi storici che hanno creato le condizioni per quanto viviamo oggi? Ci sono nessi di causa-effetto?
I segnali premonitori si situano negli anni ’90, un decennio “troppo felice e spensierato” che proprio per questo definisco di “grande distrazione”. L’Occidente, a tutti i livelli (Cittadini e classe dirigente) ha voluto prendersi un respiro di sollievo dopo la grande paura dell’olocausto nucleare. Si respirava un basso livello di consapevolezza, cosicchè anche fatti gravissimi come i due attentati kamikaze presso le Ambasciate U.S.A. in Kenya e Tanzania dell’Agosto 1998 o l’affondamento del cacciatorpediniere Cole al largo delle coste dello Yemen nell’Ottobre del 2000, vennero letti (e derubricati) come colpi di coda dell’epoca passata. Come dolorosi assestamenti del post Guerra Fredda. Ecco, questa falsa credenza ci ha impedito di essere pronti, reattivi e consapevoli di fronte allo sconquasso che, di lì a poco, l’11 Settembre avrebbe comportato. Per arrivare, nel 2008, alla crisi finanziaria innescata dal fallimento di Lehman Brothers, fino alla pandemia di oggi. Questi tre eventi epocali vanno a mio avviso letti in continuità. Sono i passaggi traumatici di un mondo che cerca ancora la sua configurazione. In questo senso il XX secolo non è ancora finito del tutto
Questi tre eventi sono dunque collegati?
Sono fortemente collegati ed emblematici, per via della loro comune natura che in dottrina strategica si definisce asimmetrica. Facciamo un salto indietro. Lo scenario della Guerra Fredda era quanto di più simmetrico si potesse pensare: chi attacca per primo, muore per secondo, essendo le capacità di offesa equipollenti. Con il terrorismo, in tutte le sue forme, questo non accade: asimmetria e imprevedibilità danno luogo a dinamiche fortemente instabili, in grado di condizionare gli asssetti politici e socio-economici del mondo intero. E la pandemia, purtroppo, lo ha palesato in modo più che evidente.
Professore, mi lasci dire: in un gioco non a caso di scatole cinesi, non crede che all’asimmetria congenita dell’evento-pandemia si aggiunga un’anisotropia ulteriore, quella della Cina, culla del virus e unico Stato al mondo a non uscirne con le ossa rotte? O meglio, a esserne già uscito?
Del resto lo affermava anche Aristotele, la Natura ha orrore del vuoto: quando da una parte si verifica un arretramento, subito l’avversario cerca di occupare il campo lasciato libero.
Proprio così. Consideriamo il caso del virus. Più spazi suscettibili al diffondersi del contagio lasciamo, più il virus muta, ritardando l’uscita dal tunnel della pandemia e facendoci perdere altri posizionamenti strategici. C’è poi il tema del rovesciamento della narrativa, in cui i Cinesi sono bravissimi. All’inizio della prima ondata, infatti, le televisioni del Dragone erano inondate di immagini delle nostre terapie intensive stracolme, come se il problema fosse solo nostro, come se il problema fosse dipeso e originatosi da noi. Per non parlare delle derive comunicative promosse dai social media.
Professor Ansalone, il tema dell’ “information warfare” si lega a quello dei cyber-attacchi, un dominio di ostilità potenzialmente dannoso quanto il virus.
Infatti. Temo che la prossima crisi asimmetrica, ma con effetti sistemici, riguarderà proprio gli spazi cibernetici. Ricordiamoci sempre che esiste almeno un precedente, in Estonia nel 2007: quando il Paese non si trovò semplicemente “fuori servizio” per qualche ora ma venne proprio “spento” nel suo sitema vitale. Questi attacchi sono portati avanti con l’avallo di sistemi organizzativi statali e parastatali, ovvero grazie all’operato di persone che, invece di indossare mimetica e scarponi, si seggono di fronte al computer con intenti ugualmente ostili.
In un contesto, peraltro, in cui ci scopriamo sempre più vulnerabili, in quanto sempre più strettamente dipendenti dalla tecnologia.
È arduo trovare l’equilibrio fra privacy e sicurezza. Soprattutto, si parla poco di come la dimensione dei dati eroda la sovranità degli Stati, almeno rispetto ai domini tradizionali di terra, acqua e aria, cui oggi dobbiamo aggiungere anche l’esplorazione spaziale. E questo non è un tema per soli Giuristi, in quanto investe noi tutti, ponendo al centro la questione della corresponsabilità. Corresponsabilità che si traduce anche nel non assecondare devastanti pulsioni antiscientifiche, investendo sulla Scienza e soprattutto sul metodo scientifico, purtroppo trascurato negli ultimi vent’anni (nonostante sia stato in grado di produrre veri e propri miracoli, come quello dei vaccini: pronti in una decina di mesi). Vogliamo dirlo? Per troppo tempo in Occidente si è voluto mortificare e livellare la competenza: poi, però, le conseguenze che si pagano sono sotto gli occhi di tutti.
C’è quindi bisogno di rialimentare il rapporto di fiducia fra Cittadini, Politica e Scienza?
Questo è il tema cruciale: in primis per le democrazie, che hanno bisogno di fiducia e corresponsabilità, a differenza delle autocrazie le quali – per costruzione – ne fanno a meno. Qui si situa anche un profondo insegnamento per i giovani: il fallimento non è una sconfitta, per superare le difficoltà serve guardare oltre gli schemi, rompendoli, e non limitandosi al solo aggiustarli. L’altra patologia innescata dall’assenza di metodo scientifico nelle decisioni politiche è qualla del disabituarsi a guardare i fenomeni nella loro complessità e profondità strategica. Pensiamo per esempio al caso delle cosiddette “primavere arabe”: l’Occidente le aveva salutate quasi romanticamente – vedasi la scelta del nome –, trascurando però di analizzare preventivamente tutti gli stravolgimenti che esse avrebbero poi determinato.
Professor Ansalone, veniamo al discorso Clima: può essere il detonatore delle crisi future?
Temo di sì. Si tratta di una minaccia asimmetrica con natura sistemica che, per definizione, ne innesca altre. Pensiamo all’impatto dei fenomeni climatici estremi, all’aumento di salinità che comporterà guerre locali per il controllo delle acque, fino allo scioglimento dei ghiacci polari con relativo aumento del livello dei mari. Intere metropoli, con milioni e milioni di abitanti, per esempio in Nigeria e in Bangladesh, potrebbero venire sommerse fra 20 o 25 anni. Determinado, come è ovvio, migrazioni di massa con proporzioni bibliche. È assolutamente improcrastinabile adottare strategie di mitigazione, che ci ingaggino sin da subito per trovare soluzioni concrete e praticabili. L’attendismo miope è inconcludente: ci saranno altre crisi, prepariamoci a gestirle.
Come sempre, prevenire è meglio che curare.
I casi di fallimento dovuti all’assenza di profondità strategica sono stati troppi: non prepararsi per tempo alla – purtroppo – prossima crisi è semplicemente colpevole. E stupido.
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