da Avvenire del 27 Novembre
E’ inevitabile che sulla «nostra Terra sovrappopolata noi facciamo permanentemente tutti gli errori ecologici possibili, ed è innegabile che vigilare è necessario; potremmo allora fare un buon uso di qualcosa come un movimento verde razionale. Ma è altrettanto chiaro che in questo campo non si ottiene nulla senza l’aiuto delle scienze naturali e della tecnica». Questo il punto di avvio di Karl Popper nel saggio “Tecnologia ed etica” (Rubbettino). Se pertanto è ragionevole pensare che i danni provocati da un utilizzo non di rado prevedibilmente sconsiderato della tecnica possono e debbono in primo luogo e soprattutto venir affrontati, nello sviluppo della ricerca scientifica, da ulteriori innovazioni tecnologiche, è anche vero, prosegue Popper, che le esagerazioni dei Verdi dinanzi ai rischi ecologici – pur necessarie «per dare una scossa al mondo» – «sono assai pericolose e hanno portato […] a peggiori abusi». E qui Popper – siamo nel 1991 – viene al suo primo problema, chiedendosi perché mai in Germania l’ostilità dei Verdi alla tecnica e alla scienza della natura sia tanto grande, mentre in altri Paesi ha un ruolo, quando lo ha, del tutto insignificante. Alle radici dell’atteggiamento antiscientifico e antitecnologico dei verdi tedeschi Popper scorge il pensiero di Heidegger: «E’ stata l’incomparabile fama mondiale di Heidegger a conferire una certa autorità all’attacco verde alla tecnologia e alle scienze in Germania». Per Heidegger la metafisica da Platone e Aristotele a Hegel e fino allo stesso Nietzsche avrebbe pensato l’essere sul modello dell’ente. Ma, così, la metafisica è in realtà una “fisica” assorbita dalle cose e che ha obliato l’essere conducendo all’oblio di questo oblio.
Platone avrebbe degradato la metafisica a fisica capovolgendo il rapporto tra essere e verità: questa starebbe nel pensiero che giudica e non più nell’essere che si disvela (verità come aletheia) all’uomo. In tal modo l’uomo, che dovrebbe essere il «pastore dell’essere», si è trasformato in «padrone dell’ente», e questo proprio in forza di quella fisica che si è presentata come metafisica. La svolta data da Platone al concetto di verità e con ciò il destino della metafisica spiegherebbero, pertanto, il destino dell’Occidente con il primato della tecnica nel mondo moderno. La tecnica non è uno strumento neutrale nelle mani dell’uomo né essa è un evento accidentale dell’Occidente. Per Heidegger, la tecnica è l’esito scontato di quello sviluppo per cui l’uomo, obliando l’essere, si è lasciato travolgere dalla «volontà di potenza», rendendo la realtà e se stesso puro oggetto di un gigantesco “apparato” tecnologico. Ed è sullo sfondo del pensiero di Heidegger, che si insiste sul fatto che la civiltà occidentale non conoscerà salvezza se non diventerà consapevole del suo atteggiamento sbagliato nei confronti dell’essere, della realtà. Il mondo occidentale è un mondo costruito sulla manipolazione delle cose, e dunque sull’idea che le cose siano trasformabili, prive di una propria consistenza, prive di essere, ridotte a niente. Senonché siffatta riduzione delle cose a niente riduce l’uomo stesso a cosa manipolabile – oggetto del potere politico o, per esempio, dell’ingegneria genetica – e porta alla devastazione selvaggia dell’ambiente naturale. In questo modo, il problema della tecnica diventa il rifiuto della tecnica. E il rifiuto della tecnica (con il rifiuto dei suoi presupposti “fisici” e “metafisici”) si trasforma nella condanna e nel rifiuto della tradizione scientifica occidentale. Ma qui Popper non esita a mettere le carte in tavola: «Io ritengo Heidegger un impostore, un falsario, e lo disprezzo perché lo ritengo un vile e un opportunista. La sua fama mondiale è uno scandalo per la filosofia, sia tedesca o internazionale».
Avviandosi alla conclusione del suo discorso Popper fa presente che «deve essere del tutto chiaro, per usare una metafora, che quando compriamo un’automobile noi diventiamo dieci volte più grassi e più pesanti di prima, e quando acquistiamo una casa di vacanze o uno yacht di lusso graviamo sull’ambiente in maniera incalcolabile». Da qui la sua convinzione stando alla quale «l’esplosione demografica è la principale causa generale di quasi tutti i nostri problemi ecologici». Viene qui da chiedersi: ma è proprio vero che le cose stanno esattamente così? A parte il fatto che se le spese destinate in tutto il mondo agli armamenti venissero indirizzate alla risoluzione dei problemi “ecologici”, gran parte della Terra si trasformerebbe in un giardino – a parte, dunque, una simile considerazione, val la pena riflettere sull’obiezione che, nel corso della discussione, viene rivolta a Popper dal ministro Riesenhuber. Se fino agli anni Settanta dominava incontrastata l’idea del Club di Roma secondo cui una maggiore crescita significava maggior consumo di energia, di materie prime e di risorse ambientali, a partire però dagli anni Settanta il paradigma della crescita si è palesemente modificato, nel senso che è facile constatare una riduzione del consumo di risorse ambientali a fronte di una crescita costante dell’economia. «La crescita – precisa Riesenhuber – c’è stata soprattutto nelle industrie basate non sul maggior consumo di materie prime ma sul fattore “intelligenza”, cioè sulle “risorse intellettuali”». Tesi, questa, supportata da chiari dati empirici: «Nel caso dell’energia, per esempio, noi abbiamo avuto negli ultimi vent’anni, in Germania, un incremento del consumo quasi pari a zero, mentre la nostra economia ha segnato una crescita del 35%».
Se, dunque, Riesenhuber prende le distanze dalla posizione di Popper, diversamente da Popper, sullo specifico argomento della sovrappopolazione, la pensa anche Hayek. In quello che è considerato il suo testamento intellettuale, vale a dire ne “La presunzione fatale”, Hayek scrive: «L’odierna idea che la crescita della popolazione minacci di produrre un impoverimento a livello mondiale è semplicemente un errore. Essa è in larga misura la conseguenza della semplificazione eccessiva della tesi malthusiana della popolazione». La concezione di Malthus cessa di essere vera, ad avviso di Hayek, in condizioni «in cui il lavoro non è omogeneo ma è diversificato e specializzato». Fu William Petty a sostenere che «la scarsità della popolazione è reale povertà»; ed è di Adam Smith l’idea che «un aumento della popolazione è cruciale per la prosperità di un Paese». E, sulla loro scia, Hayek è del parere che «un aumento della popolazione può, a causa dell’ulteriore differenziazione, rendere possibili ulteriori aumenti della popolazione e, per periodi indefiniti, l’aumento della popolazione si può auto-accelerare ed essere un prerequisito della civiltà materiale e spirituale». All’idea che la sovrappopolazione sia la causa principale di quasi tutti i problemi ecologici, Popper lega l’altra idea per cui «noi dovremmo dare tutto il nostro aiuto affinché non venga partorito nessun figlio non voluto». E qui, mentre leggevo la sua risposta a Stihl relativamente all’aborto e alla dottrina del «crescete e moltiplicatevi» sostenuta dalla Chiesa cattolica, mi son venute in mente le parole pronunciate, nel 1981, su questa nevralgica questione da un altro pensatore laico, da Norberto Bobbio: «Dice Stuart Mill: “Su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l’individuo è sovrano”. Adesso le femministe dicono: “Il corpo è mio e lo gestisco io”. Sembrerebbe una perfetta applicazione di questo principio. Io, invece, dico che è aberrante farvi rientrare l’aborto. L’individuo è uno, singolo. Nel caso dell’aborto c’è un “altro” nel corpo della donna. Il suicidio dispone della sua singola vita. Con l’aborto dispone di una vita altrui».
Chiede Bobbio: «Quale sorpresa ci può essere nel fatto che un laico consideri come valido, in senso assoluto, come un imperativo categorico, il “non uccidere”? E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il privilegio e l’onore di affermare che non si deve uccidere».
di Dario Antiseri
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