Da La Repubblica del 25 gennaio
Sì, va bene, tre Oscar. Certo: King Kong, Alien, naturalmente E.T. Sì, sì, l’America. I laboratori degli Studios. Tutto il tempo tutto il denaro, il riguardo e il sostegno di cui un genio ha bisogno per dare anima e movimento alla materia inanimata. Sì, lo sapete: Spielberg, Ridley Scott, David Lynch. Nessuno al mondo è meglio di te, Carlo. Please, we need you. Tutti gli onori, tutti i premi. Però Carlo Rambaldi da Vigarano Mainarda – i portici e il bar Eden, i pioppi allineati sul tavolo della pianura padana, la latteria e la bicicletta – quello che voleva davvero, da tutta la vita, era diventare Geppetto. Fin da piccolo e sempre: essere Geppetto, fare Pinocchio. «Ne collezionava edizioni in tutte le lingue, vecchie e nuove», racconta suo figlio Victor. «Per lui era il libro dei libri. Il suo sogno fin da quando costruiva marionette per il teatrino di Vigarano». Dare lo sguardo, il sorriso, il movimento al burattino di legno.
Ci era arrivato vicinissimo, nel 1969. Lo aveva fatto, in verità: i progetti e i disegni per il Pinocchio Rai di Comencini erano pronti, il prototipo – magnifico – realizzato. Un Pinocchio con gli occhi enormi, liquidi, umani. Come sarebbe stato E.T. tanti anni dopo: quegli occhi che bastano soli. Non si fece per ragioni di soldi, ma questa è una storia che racconteremo fra poco.
Prima bisogna dire della favola: c’era una volta un re, il re delle macchine animate e fantastiche, che prima di morire voleva realizzare il primo e più semplice dei desideri, quello che aveva coltivato per tutta lavita è che nessuno dei grandi dignitari di corte, dei sovrani dei paesi vicini, dei suoi alleati nelle battaglie e dei sultani proprietari di tesori gli aveva mai chiesto, mai permesso di costruire. Voleva fare Pinocchio. Quando ormai vecchio si ritirò, con tutti gli onori, chiamò a raccolta i suoi nipoti bambini e disse loro. Ecco, piccoli: adesso che non ho più da viaggiare e combattere, da dirimere questioni di terre e di regni farò per voi ciò che ho sempre desiderato. Aspettate e vedrete.
Portano la data del 2002 i disegni magnificenti che Carlo Rambaldi ha realizzato per la sola gioia domestica dei suoi nipoti, facendosi finalmente, da ultimo, Geppetto. Che, vedete, gli somiglia. Ha i suoi capelli i suoi ciuffi sulle tempie, il suo viso scavato, le sue mani grandi, la sua gioia bambina davanti all’oggetto compiuto. Delle tavole che l’editore Rubbettino manda in stampa in un grande prezioso libro a colori davvero fantastica è la numero dodici, quella dove Geppetto Rambaldi salta di gioia sulla sedia davanti al burattino in tredici pezzi ancora da assemblare. Il pezzo numero uno sono i capelli, il tredicesimo i piedi. Il celebre naso arriva solo al quarto posto, dopo gli occhi. Perché sono gli occhi, anche nel burattino di legno, i custodi dell’anima. Solo gli occhi resteranno gli stessi quando alla fine della fiaba diventerà bambino. Solo gli occhi, in ogni essere vivente, non cambiano mai.
Il Pinocchio di Rambaldi è, naturalmente, semplicissimo. Come poteva essere una marionetta fatta di un pezzo di legno da un povero falegname? Poteva somigliare al Pinocchio di Disney, l’unico visto al cinema quando alla fine degli anni Sessanta gliene commissionarono uno? Certo che no. Doveva essere fatto con uno scalpello e un martello, il busto una tavoletta rettangolare quasi bidimensionale, sottile, le braccia e le gambe due coppie di parallelepipedi snodati, il collo lungo, i piedi grandi. Non poteva far altro che questo, il falegname del paese. E del resto i bellissimi disegni di Carlo Chiostri ed Enrico Mazzanti, i primi illustratori delle prime edizioni del libro, lo avevano immaginato così. Ruvido, rigido. Un burattino. A quei disegni si era ispirato il padre, racconta Victor, nel ’69 quando felice della commissione aveva proposto ai produttori del film per la tv un Pinocchio esile, longilineo, «gli occhi grandi e rotondi, la bocca smorfiosa e impertinente, simpaticissimo e tenero». Il prototipo di quel Pinocchio fu scelto per rappresentare l’Italia all’Expo di Osaka. Fu scartato dal regista e dai produttori italiani, invece. Lo ritennero troppo caro, costoso da realizzare. Rambaldi aveva immaginato una sorta di animazione a distanza utilizzando micro motori a servo. Qualcosa che anticipava di decenni quella che oggi si chiama motion captare. Attraverso un’imbracatura l’animatore riusciva a far muovere a distanza il burattino. Il quale però, un metro e dieci di altezza, non poteva contenere tutti i meccanismi in un solo corpo. Dunque ne servivano diversi, uno per ogni specialità: il Pinocchio che corre, quello che salta, quello che ride, quello che piange. Nei provini con gli attori risultò formidabile. Rambaldi lo aveva realizzato a sue spese. Scrive, negli appunti dell’epoca: «Ho cominciato a modellare il viso in creta e gesso, infine ho usato una materia plastica che imita molto bene il legno. Mi hanno aiutato i miei studi fatti in gioventù a Bologna, dove mi laureai in Accademia di Belle Arti. Ho finalmente realizzato il Pinocchio che sognavo grazie ad alcuni ritocchi essenziali, primo tra tutti una maggiore grandezza dell’iride degli occhi, mobilissimi in tutte le direzioni». Gli occhi, sempre, il segreto. Il progetto fu bocciato dalla Rai. Anonimo il funzionario. Scrisse Sergio Saviane su l’Espresso,l’11 ottobre 1970: «La Rai ha già sacrificato decine di milioni per il burattino. L’unico che tra tanti ne ha visto poco più di uno è stato il povero Geppetto ( Rambaldi ) che ha lavorato dei mesi rimettendoci perfino di tasca propria». Fu una grande delusione. Scrisse Carlo, dopo lo stop ai lavori: «Pinocchio non è mica Giamburrasca e nemmeno Cappuccetto rosso. Pinocchio è un pezzo di legno con una personalità precisa e complicata, pieno di sorprese e imprevisti. Non si può farlo in questi termini. È un’assurdità». Non se ne faceva una ragione.
Tredici anni dopo i grandi occhi di Pinocchio sono diventati i laghi azzurri nel volto di E.T. Trentatré anni dopo, quando ormai era solo per la felicità dei nipoti che lavorava, hanno riempito ì quaderni che vedete oggi riprodotti qui. Il tratto a volte è semplice, quasi solo abbozzato. Altre volte precisissimo, da progettista. In qualche tavola sembra di riconoscere un omaggio futurista, o impressionista, oppure anche una semplice allusione ironica ai molti grandi illustratori di Pinocchio che certo Rambaldi aveva nella sua collezione, da Sergio Tofano a Jacovitti. Certo il primo, quello di Enrico Mazzanti, è quello che più si affaccia sotto il cappello bianco di mollica di pane, morbido fungo di bosco.
Aveva cominciato, ragazzo, disegnando e progettando uno storione per il documentario di un amico sulla pesca nel delta del Po. Ha finito – Carlo Rambaldi il genio, il mito, il maestro – disegnando un pescecane. Un «terribile pescecane», scrive di suo pugno in stampatello, nelle cui viscere Pinocchio ridente lo incontra: lui, Geppetto, seduto a un tavoluccio di legno, al lume di una candela, davanti a un piatto vuoto. In mezzo a timoni divorati, ancore di navi e intestini alza mani e piedi in un balzo verso la sua creatura. Alla fine della vita, gli occhi stretti nel più largo dei sorrisi, felice.
di Concita De Gregorio
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