I libri spesso sono storie sospese. Letture iniziate, interrotte, magari riprese, magari no. A volte, diciamo anche più che a volte, va così. L’autore partorisce e poi presenta le sue pagine rilegate che finiscono nelle mani e sotto gli occhi di chi, per tante ragioni diverse, deciderà se prenderle solo in affido o proprio adottarle. Ci sono romanzi sospesi in questa maniera, per scelta del lettore. Poi però ce ne sono altri sospesi in altro modo. I libri tenuti nel cassetto. I libri veri, si intende qui, non quelli che un tempo si chiamavano manoscritti in cerca d’editore.
Qua l’editore c’è e arriva subito, già a dicembre del 2018, non appena ricevuto il romanzo. È l’autore, in questo caso l’autrice che, pubblicato il suo romanzo, subito dopo lo mette via. Troppe altre cose le ingolfano la vita, non c’è tempo e non c’è il pensiero giusto per parlare agli altri e con gli altri della storia che ha scritto, dei personaggi, della bellezza che c’è in quelle pagine appena stampate. Per cinque anni, che sono tanti, è così: un libro scritto, pubblicato e accantonato. Poi però l’autrice, liberata dalla vita, all’improvviso si domanda: ma scadono i libri? Ed è la risposta che si può immaginare qui a rimetterla in gioco, nel suo giro troppo a lungo rinviato di presentazioni.
Questa è la storia di sospensione, e a conoscerla nei dettagli potrebbe essere già un altro nuovo romanzo, di Piccole immagini di raso bianco (Rubbettino Editore, pp 261) e di Manuela Petescia, la giornalista scrittrice che anni addietro, correva il 2007, aveva catturato l’attenzione e l’amicizia di Maurizio Costanzo. Nel salotto televisivo più noto di sempre, la direttrice di Telemolise, la principale emittente molisana, s’era ritrovata a sciogliere in diretta tivvù, sostenuta in questo proprio da Costanzo, il grottesco equivoco, di cui lei ride ancora, generato da quel piccolo caso letterario che era stato il suo monologo “Tutte le volte che mi sono venduta” sul quale la stampa nazionale in particolare si era scatenata.
Colpa, allora, dell’io narrante. Che però è un vizio, ben strutturato, della scrittura di Manuela Petescia. In Piccole immagini di raso bianco la voce del racconto è quella del protagonista, stavolta un uomo, uno psichiatra bello, affermato, stimato. Arrembante docente universitario. Una voce così credibile, così autentica da portare il lettore a dimenticare che dietro a ogni parola ci sono l’occhio e la guida di una donna.
La storia, che è una storia che declina l’amore come legame, come morte, come tormento e amicizia, è un ribaltamento continuo tra vittime e carnefici, con un coro di voci che entrano all’improvviso nella pagina ma che subito sanno farsi riconoscere. Un’incredibile fusione anche di registri linguistici che non creano mai confusione. Anzi. Ogni paziente diventa per chi legge un pezzo di specchio nel quale riconoscersi. Dialoghi non dialoghi, come solo il pensiero muto sa mettere insieme per dare una logica a quello che poi le parole non sanno spiegare.
C’è una donna bellissima, Dolores, alla quale lo psichiatra impone un ricatto inaccettabile, vergognoso, lontano da ogni forma di serietà professionale, di umanità. È sopraffazione, delle più sgradevoli e meschine. Perché è fragile, quella donna che si vede costretta ad accettare, presa dalla paura di perdere i suoi figli, ma non così fragile come crede il medico. Dolores è l’animo umano e tutto quello che, dopo aver toccato il fondo, può essere o diventare senza nemmeno saperlo immaginare.
Attorno c’è un amico, una figura speciale. Divertente, dissacrante, piena di una umanità rara. È l’amico con cui si condivide il confine mancato tra amore e amicizia. In “Piccole immagini di raso bianco” c’è un pieno nel quale si può stare tutti, senza giudizi, senza paure, senza freni. E in questo pieno si finisce per diventare persino la mamma che l’amico invoca, che cerca disperatamente, quando non c’è più certezza di niente.
Senso del male, senso di colpa, peccato, la potenza del plagio e quell’assoluzione che è difficile darsi, e non è la stessa cosa se poi la danno gli altri. Ego te absolvo, ricorre la formula nel romanzo, ricorre e inquieta.
Piccole immagini di raso bianco è un viaggio nella mente umana, tra citazioni e riferimenti ai grandi padri della psicoanalisi, della filosofia e della letteratura (spicca l’omaggio a Salinger con la citazione del Giovane Holden), è un viaggio ai limiti estremi dei pensieri quotidiani.
Un viaggio intimo che davvero vale la pena affrontare, anche per capire e prendere coscienza con forza che il giudizio è solo un’arma per nascondere le mostruosità che si hanno dentro. Nessuno è perfetto, nessuno è quello che sembra, e tutti abbiamo a che fare con la sofferenza. Manuela Petescia crede questo: non è tanto la morte l’elemento che accomuna le persone, gli esseri umani (e con umani lei abbraccia tutti i viventi). È il dolore, il vero punto di incontro, di comunione, perché tutti, davvero tutti, anche senza darlo a vedere, abbiamo avuto a che fare o abbiamo a che fare con il dolore, in quelle sue forme che spesso appaiono per chi deve affrontarle senza pietà.
È una lezione potente che porta dire a chi legge il romanzo che ha fatto bene la giornalista scrittrice molisana a decidere di presentare il suo lavoro a cinque anni dalla pubblicazione. I libri non scadono mai. E Piccole immagini di raso bianco conferma che questa è una gran bella verità.
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