Perché Isaiah Berlin è preferibile a Karl Popper (huffingtonpost.it)

di Dino Cofrancesco, del 25 Aprile 2021

A Spartaco Pupo, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università della Calabria, si deve un’edizione degli scritti politici di David Hume — Libertà e moderazione, Ed. Rubbettino 2016 — che dovrebbe figurare nelle biblioteche non solo di tutti i liberali ma anche di tutte le persone colte interessate allo studio delle grandi culture politiche che hanno fatto la storia — e la civiltà ― dell’Occidente. Lo studioso di Hume ― che con Montaigne ha inaugurato lo scetticismo moderno ― non poteva non allargare lo sguardo alla storia di un filone di pensiero che da Socrate e da Pirrone arriva a Richard Rorty. Ne è venuto fuori un ponderoso volume, Lo scetticismo politico. Storia di una dottrina dagli antichi dai giorni nostri (ed. Mimesis) che fa il punto su uno ‘stile di pensiero’, che in un’epoca di grandi conflitti ideologici come la nostra, potrebbe contribuire a raffreddare le passioni e a distendere gli animi.

Leggendolo m’è venuta una pagina dell’Era delle Tirannidi (1936) in cui Elie Halévy, memore del Que sais-je? di Michel Montaigne, scriveva: ”Quando applicando su noi stessi i metodi della ricerca storica, siamo condotti a scoprire le ragioni delle nostre convinzioni, spesso constatiamo che esse sono accidentali, che derivano da circostanze di cui non siamo responsabili. E forse, vi è implicita una lezione di tolleranza. Se si è ben compreso ciò, si è indotti a chiedersi se vale la pena di massacrarsi gli uni con gli altri per convinzioni la cui origine è così fragile”.

Si resta ammirati dalla vastità delle conoscenze di Pupo che investono non solo gli autori presi in esame, ma altresì, le interpretazioni che ne sono state date nei secoli. E tuttavia se ci si chiede cosa sia poi quel filo rosso scettico che li congiunge tutti, ci si fa l’idea che esso sia definibile solo nella sua pars destruens: nel rigetto di quello che Michael Oakeshott chiamerà, per citare il titolo del suo saggio più noto, il ‘Rationalism in Politics’: l’opposizione a ogni pretesa della Ragione di farci conoscere, infallibilmente, il mondo della natura e quello della storia, le leggi eterne che lo regolano (il giusnaturalismo sia degli antichi che dei moderni), i modelli politici che gli uomini debbono realizzare per rendersi degni della dignità e dell’eccellenza che li elevano sul resto del creato.

“La figura dello scettico — scrive Pupo nella densa Introduzione al testo ― dal latino scepticus derivante dal greco skeptikós, che significa “sottile osservatore”, ha poco a che vedere con quella dell’agnostico o del relativista, del nichilista o del soggettivista, da cui si distingue soprattutto per la singolare metodologia d’analisi con cui giunge all’impossibilità di decidere sulla verità o la falsità di asserzioni, proposizioni e teorie”. Nel precipitare dei tempi si ripresenta sempre la stessa idea: le basi del sapere umano, sono incerte, l ’etica presenta valori diversi e incompatibili, che nessun criterio razionale, è in grado di disporre in un ordine gerarchico, nella grande incertezza della condizione umana bisogna guardarsi dal sovvertire l’ordine sociale, giacché a farlo si sa cosa ci si lascia alle spalle ma non quel che ci aspetta. Come scrive il nostro Giuseppe Rensi in Apologia dello scetticismo, “non esiste un giusto per natura, cioè per ragione, che la ragione pura possa ricavare unicamente dal suo proprio fondo, e quindi uguale in tutti i tempi e i paesi, assoluto; ma ciò che è giusto, o meglio ciò che deve valere come giusto, è determinato dall’autorità del fatto esterno, empirico, extrarazionale: le diverse condizioni geografiche, economiche, sociali, il costume, l’opinione e il sentimento del gruppo etnico a cui l’individuo appartiene”.

È un leitmotiv che ricorre in quasi tutti i protagonisti della storia narrata da Pupo, si tratti di Montaigne o di Hume, di Oakeshott o di Karl R. Popper, per non parlare dei moderni come Samuel Sorbière, Blaise Pascal, Pierre Bayle.

Per Pupo il conservatorismo politico — ben distinto dal tradizionalismo che quando non è teocratico divinizza la Natura o la Storia — finisce per essere l’esito scontato dello scetticismo. “L’opzione astensionistica scettica, contro ogni tentativo di imporre in politica, come nella vita, verità precostituite e modelli dogmatici di politèiai e consorzi umani supposti come felici e contrapposti a quelli tradizionali” portano gli scettici (antichi moderni e contemporanei) a vedere nella giustizia “il rispetto delle leggi e del costume avente come fine ultimo il soddisfa-cimento dell’utile pubblico e la conservazione della città”. Di qui l’accentuazione della dimensione antilluministica della filosofia humeana. “L’illuminismo di Hume è quello ‘mite del bon David’, come erano soliti chiamarlo i francesi contemporanei in omaggio alla mitezza del suo carattere, è l’illuminismo distante da ogni ‘tentazione sistematica’, orientato a una ‘saggistica capace di affrontare temi e ricerche particolari’, tollerante nei confronti delle opinioni altrui e consapevole delle difficoltà cui va incontro” Hume è un conservatore “attento alla forza del costume, che consolida quello che altri principi della natura umana fondano in modo imperfetto, e che è la vera origine dell’obbedienza”.

Pupo ha ragione nel distinguere il conservatorismo dal liberalismo. Nel magistrale scritto Verso la città divina (‘Rivista di Milano’ 20 aprile 1920), Luigi Einaudi, criticando Giuseppe Rensi e la sua ossessione dell’unità degli spiriti, scriveva che a caratterizzare la civiltà moderna è la concezione dello Stato “come l’ente il quale assicura agli uomini l’impero della legge, ossia di una norma esteriore, puramente formale, all’ombra della quale gli uomini possono sviluppare le loro qualità più diverse, possono lottare fra di loro, per il trionfo degli ideali più diversi. L’ impero della legge come condizione per l’anarchia degli spiriti; la forza limitata alla vita estrinseca; l’unità ristretta alle forme ed alle condizioni di vita. Ma dentro, ma nella sostanza, nello spirito, nel modo di agire, lotta continua, pertinace, ognora risorgente”. Ordine e libertà: Einaudi aveva colto nella loro dialettica l’essenza del liberalismo.

Lo scetticismo politico di cui Pupo ricostruisce la storia, guarda all’”impero della legge” (del costume, delle tradizioni consolidate) più che all’”anarchia degli spiriti”, ovvero al motivo della lotta, del conflitto sociale in cui i libertari (penso ad es. a Piero Gobetti) vedevano con Eraclito, ’“Polemos padre di tutte le cose, di tutte re”, indifferenti agli argini istituzionali che danno sicurezza.

Se la distinzione del conservatorismo dal liberalismo è convincente, ho la sensazione che nell’ordito concettuale di Pupo manchi qualche filo importante. Se lo scetticismo è la coscienza (infelice) della fragilità su cui poggiano i nostri saperi (momento teoretico) e della impossibilità di dedurre i nostri valori dalla ragione (momento etico) esso può tradursi in un’immagine del mondo e della storia dominati dall’irrazionalità. In fondo tutta l’analisi di Karl R. Popper della ‘società chiusa’ contrapposta alla ‘società aperta’ si espone, a ben riflettere, a una sostanziale incomprensione di fenomeni—come il nazionalismo, il fascismo, il comunismo—visti come irrazionali e non come (in realtà sono) arazionali. ”La società chiusa è il modello idealtipico di un atteggiamento mitico e irrazionale nei confronti del mondo, che si regge su un’organizzazione di stampo “tribale” e “collettivista” dalle rigide norme di comportamento imposte d’autorità ai suoi membri”. Nella Società aperta e i suoi nemici, Popper arriva a scrivere che Wilson “era un sincero democratico” ma “dev’essere caduto vittima di un movimento che traeva origine dalla più reazionaria e servile filosofia politica che mai sia stata imposta al docile e tormentato genere umano. Egli dev’essere stato vittima della sua educazione fondata sulle teorie politiche metafisiche di Platone e di Hegel,e del movimento nazionalistico basato su di esse”. Per Popper “il principio dello stato nazionale, vale a dire la pretesa politica che il territorio di ogni stato debba coincidere con il territorio abitato da una nazione, è un mito; è un sogno irrazionale, romantico e utopistico, un sogno del naturalismo e del collettivismo tribale”.

In realtà, non è lo storicismo a fornirci la bussola per orientarci nella “selva selvaggia e aspra e forte” degli ultimi due secoli ma il pluralismo. Nella concettualizzazione che ne fa Isaiah Berlin, ne Il legno storto dell’umanità, esso non è giocato sull’irrazionalità ma sull’arazionalità di tutti i valori. Nel saggio, Sul relativismo nel pensiero del Settecento Berlin scrive che “esistono molti fini oggettivi, molti valori ultimi (alcuni incompatibili con altri), fatti propri da società differenti in tempi diversi, o da gruppi differenti entro la medesima società, da intere classi o Chiese o razze, o da individui particolari in seno a queste; e ciascuno di questi fini può trovarsi soggetto alle istanze contraddittorie di altri fini non armonizzabili e nondimeno ugualmente ultimi e oggettivi. Dal fatto che i valori di una cultura siano magari incompatibili con quelli di un’altra, o che una cultura o un gruppo o anche un singolo essere umano accolga in momenti differenti (e persino contemporaneamente) valori in conflitto tra loro, non discende un relativismo dei valori, ma soltanto la nozione di una pluralità di valori non strutturati gerarchicamente: una pluralità che na­turalmente comporta la possibilità permanente di conflitti ineludibili tra valori, come pure di un’in­compatibilità tra gli orizzonti mentali di civiltà dif­ferenti o di stadi differenti di una medesima civiltà”. Non ci sono da un lato valori e dall’altro disvalori, qui la luce della ragione (sia pur critica e con la erre minuscola), là le tenebre della superstizione, della regressione tribale, dell’intolleranza totalitaria ma i valori sono tutti ‘valori e se alcuni degenerano (e diventano i demoni della ‘società chiusa’) vanno individuate le ragioni e le circostanze storiche di tale conversione.

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