da Reset del 7 gennaio
Quello condotto dagli Elio Cadelo e Luciano Pellicani nel breve, ma ben fatto e ottimamente documentato libro edito da Rubbettino, è un attacco frontale contro l’atteggiamento antiscientifico e antitecnologico che si va sempre più diffondendo nel nostro Paese. Si tratta, come ben messo in evidenza dagli autori, di un tipo di approccio dettato da cause irrazionali, spesso da paura o, comunque, da una disinformazione che non è mitigata, ma, anzi, spesso rafforzata dalla quantità di dati sempre crescente a cui si può accedere tramite i nuovi media e che necessiterebbe, per essere correttamente interpretata, di un’alfabetizzazione scientifica che, negli ultimi trent’anni si è mostrata in costante calo.
Pellicani rintraccia le origini dell’avversione italiana nei confronti della scienza nel pensiero di Croce e Gentile. I due filosofi dell’idealismo italiano avrebbero, a parere dell’autore, preparato le basi di una diffusa ostilità nei confronti del pensiero scientifico. Si tratta, bisogna dirlo, di una posizione di vecchia data che – pur giustamente corretta dall’autore, mettendola in connessione con gli analoghi, e spesso ben più gravi, attacchi che la scienza si trovava a subire da buona parte del pensiero filosofico europeo, in particolare di area tedesca – merita oggi di essere discussa con attenzione. A parere di chi scrive, non sono solo i successi scientifici ottenuti dall’Italia nel periodo in cui i due pensatori erano più attuali, e di cui, pure, Pellicani dà atto, a dover spingere alla riflessione su questo punto. Anzi, si può certamente affermare che l’analisi di questi successi sia irrilevante per una analisi che si muove su un terreno diverso.
A dover spingere maggiormente alla riflessione deve essere la constatazione che nel dopoguerra l’idealismo italiano ha smesso di costituire il pane quotidiano non solo del ceto intellettuale, ma anche degli stessi studiosi di filosofia, rimpiazzato da filosofie di origine centroeuropea e anglosassone ritenute più moderne. In questo mutato clima culturale – e a oltre sessant’anni dalla scomparsa dei due filosofi – se si fosse veramente rintracciata la causa della “antiscientificità” italiana nel loro pensiero – e nell’impostazione data, soprattutto da Gentile, alle istituzioni scolastiche e universitarie – si avrebbe avuto tutto il tempo di intervenire. Più convincente risulta, allora, la messa in stato d’accusa di un clima di diffusa ostilità, anche da parte della classe politica, al pensiero scientifico, aggravatosi durante la contestazione studentesca degli anni Sessanta.
«Il rifiuto della selezione considerata classista, la richiesta del “27 politico”, l’autogestione assemblearista delle istituzioni universitarie», scrive Pellicani, «esprimevano una violenta reazione ideologica contro lo spirito della Modernità e gli imperativi funzionali della società industriale» (p. 15). Appare, in effetti, innegabile che – sebbene vulnerate da un atteggiamento non del tutto favorevole – la scienza e la tecnologia italiane mostrassero fino a quegli anni un certo grado di fecondità che annovera tra i suoi frutti il CNEN, il primo Anello di Accelerazione costruito a Frascati, ma anche la divisione tecnologica della Olivetti, destinato a diminuire negli anni successivi. L’atteggiamento antiscientifico italiano trova terreno fertile, oltre che nella scarsa preparazione scientifica, anche in un approccio ideologico alla realtà, che tende a considerare scienza e tecnologia come strumenti del dominio e che ha prosperato particolarmente nel nostro Paese. L’autore non esita a definire il furore antiscientifico un atteggiamento religioso, in una «metamorfosi del sacro» che ha portato all’emersione su scala di massa dello «homo ideologicus» (pp. 16-17).
Il risultato è un’adesione sempre crescente a teorie prive di fondamenti scientifici che facendosi portavoce delle istanze di una “decrescita felice” e di una “abbondanza frugale”, mostrano la loro incapacità a dare risposte su scala globale, concentrandosi, tutt’al più, in un localismo che rende evidente, a parere di chi scrive, il loro carattere intrinsecamente, sebbene spesso cripticamente, reazionario. L’altro corollario dell’antiscientismo militante è la negazione dei vantaggi che la seconda rivoluzione industriale ha portato in termini di aumento della ricchezza e della disponibilità di generi alimentari, diminuzione delle epidemie e delle carestie fino all’azzeramento pressoché totale – nelle società industrializzate – dei morti per fame e della mortalità infantile. A ciò si accompagna la mancata comprensione che, se una soluzione si vuole trovare al problema ecologico, essa non è rintracciabile in un romantico, e artificioso, ritorno al passato, quanto piuttosto proprio nei progressi di quella scienza che viene demonizzata.
La parte del libro scritta da Elio Cadelo si mostra meno concentrata sulle radici filosofiche e ideologiche dell’avversione italiana per il pensiero scientifico. Attraverso una ricostruzione storica ed economica basata su dati e statistiche, Cadelo offre un quadro a tinte più che fosche della situazione italiana. Il panorama è, effettivamente, sconfortante, se è vero che gli analfabeti funzionali – ovvero quegli adulti che, pur riuscendo a leggere un testo, non riescono a comprenderne il contenuto – rappresentano oggi il 75% degli italiani, facendoci guadagnare un poco onorevole ultimo posto nel mondo occidentale (cfr. pp. 58-59). La situazione appare ancor più sconfortante per quel che riguarda l’alfabetizzazione scientifica.
Tuttavia, sebbene buona parte della responsabilità sia da attribuire alla politica, a un atteggiamento antiscientifico trasversale ai diversi schieramenti partitici che ha condotto a un’impostazione essenzialmente ostile alla scienza dei governi che si sono succeduti, va rilevato come anche il mondo industriale non abbia contribuito al cambio di paradigma: l’industria italiana, in controtendendenza rispetto a quanto avviene negli altri paesi europei, punta poco su chi ha conseguito una laurea, e anche le assunzioni di figure professionali ad alta specializzazione sono in diminuzione (cfr. pp. 74-75). L’università finisce, così, per perdere di attrattiva e le immatricolazioni, soprattutto negli atenei pubblici, sono in costante calo. Le cose vanno diversamente per quelli privati tra cui, però, vanno annoverate anche le università telematiche che «pur non garantendo una qualità nella preparazione, garantiscono, invece, un titolo di studio dal valore legale» (p. 77). Il risultato è che, non vedendosi garantito un lavoro, e un trattamento economico, adeguato alla propria formazione, chi le ha dedicato buona parte della propria vita guarda sempre di più all’estero, non solo ai mercati tradizionali, ma anche a quei paesi emergenti che, invece, proprio sulla ricerca e sulla formazione universitaria investono buona parte delle proprie energie.
È importante sottolineare che il fenomeno della fuga dei cervelli non riguarda solo una parte ristretta della popolazione, ma si traduce in un vero e proprio spreco per il sistema paese. In sostanza l’Italia investe (poco) per la formazione di un’élite di ricercatori che non avendo sbocchi nel nostro Paese si vedono costretti ad emigrare, portando con sé il loro know how e producendo all’estero quello che potrebbero produrre in Italia. Come ben evidenziato da Cadelo, portando ad esempio la situazione dei brevetti italiani (cfr. p. 86), non si tratta solo di uno spreco intellettuale, né di una questione di prestigio, ma di un vero e proprio sperpero di risorse, anche economiche. Per di più, l’atteggiamento antiscientifico dei governi italiani, supportato da un’informazione parziale o carente dell’opinione pubblica sulle tematiche scientifiche, oltre a portare a contrasti tra Italia e Unione Europea, finisce per distruggere anche le ricerche già avviate e su cui già sono state investite risorse. Indicativa di questo stato di cose è la direttiva con cui i ministri Catania e Clini hanno ordinato, nel maggio del 2012, la distruzione di un campo sperimentale di Kiwi geneticamente modificati, interrompendo, così, una ricerca che durava da trent’anni e disperdendo i soldi investiti fino a quel momento (cfr. pp. 101-102). In questo stato di cose, Cadelo si spinge fino a dire che «la scienza e la ricerca scientifica non sono supportate ma “sopportate” dai governi» (p. 105).
Altrettanto indicative dello stato di cose in cui la ricerca italiana è costretta a muoversi sono le frequenti opposizioni che essa riceve da un’opinione pubblica malinformata. Un esempio tra tutti è dato dall’ormai famigerato referendum del 1987, a seguito del quale l’Italia ha rinunciato alla produzione di energia elettrica da nucleare. Uno dei risultati è la costante fame di energia in cui il nostro Paese ha finito per trovarsi e, strano a dirsi, la stessa opinione pubblica preoccupata per i rischi connessi al nucleare commerciale, non si mostrava, né si mostra oggi, allarmata per i presunti rischi derivanti dai tre reattori per ricerca scientifica tuttora attivi in Italia (cfr. pp. 105-108).
La situazione attuale, che vede riaprirsi in un modo inedito il contrasto tra scienza e fede, ovvero tra risposte accettate e soluzioni respinte non sulla base di una critica cosciente, ma partendo dal presupposto che scienza e tecnologia rappresentino in sé un pericolo asservito, peraltro, agli interessi di oscuri gruppi di potere, conduce, da un lato alla crescente incapacità italiana di progettare il proprio futuro non solo nella ricerca pura, ma anche – e il destino di contestazione a cui vanno in contro tutte le così dette grandi opere ne fornisce un chiaro esempio – per quel che riguarda l’assetto logistico ed economico del sistema Paese. D’altro lato, sempre in riferimento alla questione delle grandi opere, si è assistito a un progressivo prevalere degli interessi locali su quelli nazionali, con un atteggiamento che, più ancora che da motivazioni universalizzabili sembra causato da una sindrome NIMBY di proporzioni patologiche, ma purtroppo endemica in Italia.
È interessante notare come, Cadelo, rintracci buona parte delle origini delle istanze oggi portate avanti dai movimenti locali, da un certo tipo di ambientalismo e dagli oppositori a qualunque forma di innovazione scientifica in quei movimenti reazionari che insanguinarono l’Europa nella prima metà del secolo scorso e a cui, a ben vedere, più si confanno una difesa a oltranza della tradizione, del paesaggio, di non meglio identificati “antichi valori” e, in definitiva, dello status quo (cfr. pp. 125-132). L’appropriazione di queste tematiche da parte della sinistra, e della sinistra italiana in particolare, avviene solo molto tardi se è vero che ancora a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, i movimenti “hippie” venivano per lo più considerati «l’espressione della degenerazione della borghesia e del comunismo» (p. 136). Di li a poco le cose sarebbero cambiate.
Più ancora che il mutamento di impostazione politica della sinistra italiana, tuttavia, deve destare interesse il cambio di approccio dello stesso ecologismo che negli anni Settanta passa da una contestazione di tipo ideologico a una di tipo scientifico. Questo mutamento non riesce, però, a migliorare le cose: le profezie del Rapporto sui Limiti dello Sviluppo, pubblicato nel 1972, si rivelano errate, tuttavia proprio la loro veste scientifica ha dato luogo, in una società in cui la scienza risulta sempre meno comprensibile, a un contrasto tra una scienza “buona” e una “cattiva”, succube di interessi superiori, destinato a intensificarsi col radicalizzarsi delle idee ecologiste a partire dal 2000.
Non si tratta qui, è ovvio, di prendere le parti a favore o contro una singola situazione, ma piuttosto di affrontare criticamente le ragioni di uno svantaggio che grava sul nostro Paese. L’adesione a posizioni che, per quanto sostenute da una veste scientifica rimangono fortemente intrise di ideologia, accompagnate dal flusso sempre crescente di informazione disponibile a cui, tuttavia, si correla, come già ricordato, una crescente incapacità di comprendere tematiche scientifiche, conduce a una situazione che non può certo definirsi rosea. Quella che si va profilando è una vera e propria crisi antropologica che vede gli italiani sempre più confinati in un «provincialismo volontario, dettato dalla paura delle trasformazioni e da un attaccamento immaturo alla nostra qualità della vita» (p. 158). L’autosottrazione dal processo storico, la critica a priori a ogni mutamento, comporta anche l’incapacità di progettare il proprio futuro, e i dati, in questo senso, sono particolarmente sconfortanti: solo il 50% degli considera l’istruzione e la scuola investimenti validi. La conseguenza è non solo l’aumento costante della manipolabilità, ma anche un’influenza negativa sulle scelte economiche e politiche del Paese.
Il triste quadro dipinto dagli autori sulle cause del ritardo scientifico italiano rende ben evidenti i danni causati da un atteggiamento che, possiamo dire, si rivela ostile non solo alla scienza in senso stretto, ma, più in generale, alla ricerca e agli investimenti in formazione, istruzione e sviluppo sono evidenti. Giunti al termine rimane aperta una domanda che si rivela fondamentale non solo per la ricerca, ma anche per lo sviluppo italiano e per la possibilità del nostro Paese di uscire dallo stato di crisi che perdura ormai da un lustro: le scelte penalizzanti compiute nei decenni passati sono oggi reversibili? In caso contrario dovremo tutti prepararci a pagarne il prezzo.
di Andrea Pinazzi
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