Come da copione, l’Italia fa storia a se. E di fronte al bivio tra un disciplinato reggimento prussiano e un’allegra armata Brancaleone non abbiamo esitato in attimo ad arruolarci nella seconda. Forse perché l’unica in cui è possibile spacciare per un’uniforme il costume di Arlecchino”. Amara ma ragionata, riflessiva ma scanzonata. E, comunque, è anzitutto una istantanea impietosa del Belpaese questa che Mario Landolfi scatta e ci restituisce col suo piacevolissimo “La Repubblica di Arlecchino” (Rubbettino, 15€).
Una critica serrata al nostro sistema politico ingessato dal peggiore dei virus, il regionalismo, e dall’ubriacatura federalista. Mattane che hanno prodotto il mostrum che ci sta impallando internamente rendendoci sempre più marginali sullo scacchiere internazionale.
Nel bel mezzo della pandemia da Covid-19, ci si rende conto, nota l’autore, che “la nostra affievolita coscienza nazionale è una malformazione congenita”. Tant’è che l’infezione venuta dalla Cina rende ora plasticamente visibile “la disarmante debolezza delle nostre istituzioni” con l’evidente “polverizzazione di funzioni, potere e competenze”.
Landolfi, forte della sua pluriennale esperienza politica e nelle Istituzioni, mette nel mirino la totale “sconnessione tra il dire e il fare” che il cittadino ha percepito lungo tutti questi mesi tormentati e confusi e denuncia, con la puntualità del cronista, tutto quel che non funziona. A partire dallo “spettacolo a volte indecente, spesso irritante, sempre allarmante” di quel conflitto parolaio che è diventato “il derby infinito tra governo e governatori”.
È un dato di fatto che entrambi giochino a rincorrersi e a rimpallarsi competenze e responsabilità, mentre la popolazione è spaventata e in grave sofferenza sociale ed economica. In primo piano, l’arcano delle sanità regionali, con le loro inefficienze e sperperi ma anche con le eccellenze e con un Servizio sanitario nazionale che però “dirige solo il traffico” perché tanto “a guidare sono i governatori”.
Fatti e responsabilità che l’autore individua e assegna senza timore, chiamando in causa il governo D’Alema per il vulnus assestato alla unitarietà della sanità pubblica col famoso ed ormai famigerato dl 56/2000 e quindi la scellerata successiva riforma del titolo V della Costituzione varata in fretta e furia dal governo Amato per blandire l’opinione pubblica del nord.
Sullo sfondo la cruda realtà storica di una Italia che lo stesso Mussolini tentò di far lievitate da “nazione culturale” a “Stato nazione” e che invece, uscita ancor più frammentata dalla II guerra mondiale, diventa sì Repubblica, ma “dei partiti”.
E di cui il vero “fondatore”, per quanto ironico possa apparire, potrebbe essere individuato proprio in quel “Re d’Italia” che con la sua fuga ignominiosa causò la voragine costituzionale richiusa dai partiti del Cln.
Costretti al rimbambimento (da divano e tv!) in forza delle contraddittorie misure antivirus di un esecutivo che oramai decreta in “stato di emergenza” da 10 mesi, questa lettura arriva come una fresca doccia di verità che scuote dal torpore del presente. Rigenerante.
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