Da La Gazzetta del Mezzogiorno del 12 giugno
Il completamento e lo sviluppo del disegno dell’Unione bancaria costituiscono un nuovo traguardo storico per l’Europa, per le sue imprese, per l’economia. Ma senza l’unione fiscale, le imprese bancarie che operano in Italia continuano a giocare ad armi ìmpari e gli effetti sono evidenti.
Se si vuole andare oltre i luoghi comuni, si deve prendere atto che in Italia le imprese, incluse le banche, stanno vivendo un periodo di forte pressione fiscale che, se prolungata, rischierebbe di compromettere la stessa permanenza di molti intermediari sul nostro territorio. La riduzione dell’Irap sulle imprese dal 2015 è un primo positivo e importante passo. Ma occorre proseguire. Come si può pensare di essere un Paese attraente per gli investitori, ma anche semplicemente un Paese con un futuro di sviluppo e di occupazione, se la stessa attività di impresa, svolta a Mentone e non a Ventimiglia, continuerà a generare un abbattimento di pressione fiscale del 60 per cento!
Cosa offre l’Italia a un’impresa straniera per invogliarla a investire nel nostro Paese? Cosa garantiamo agli investitori stranieri per convincerli a rimanere in Italia? Cosa offriamo ai nostri giovani se le imprese non rimarranno in Italia? Qui le imprese bancarie, e le imprese in genere, hanno sopportato e continuano a subire da sole gli effetti della crisi senza bad banks, senza aiuti di Stato e con alti livelli di tassazione. Questa situazione d’emergenza, se si prolungasse, rischierebbe di compromettere la ripresa italiana delle produzioni e dei servizi in un mondo globalizzato e in un’Europa fortemente integrata economicamente, dove manca soprattutto l’unione fiscale, cioè l’uniformità delle regole del fisco. Infatti, dopo la creazione dell’Unione economica europea, di quella doganale, dell’unità monetaria e ora anche con l’Unione bancaria, è indispensabile e sempre più urgente anche una riforma della tassazione in questo mercato più che mai unico. Altrimenti le asimmetrie, e in particolare l’eccesso di pressione fiscale in Italia, innanzitutto sui fattori produttivi fra cui le banche, trasformerebbero l’Europa da vincente strategia in fonte di contraddizioni penalizzanti per chi mantenesse le più alte tassazioni. Tali disparità, se protratte, rischierebbero di penalizzare gravemente l’Italia nello sviluppo e nell’occupazione, nei livelli di qualità sociale.
Dobbiamo, quindi, avere piena consapevolezza che la soluzione dei cronici mali italiani non sta in tardive nostalgie di un passato irrimediabilmente superato e che non torna: l’improbabile ritorno alla lira non è una prospettiva idilliaca, ma porterebbe effetti nefasti soprattutto per i più deboli e per i risparmiatori, sarebbe un crudele attacco all’equilibrio sociale, un rimedio peggiore del male. La via da seguire è diversa, richiede senso di responsabilità e implica in primo luogo la piena e coerente adozione dei principi, dei doveri e dei diritti fondamentali di una matura civiltà economica e democratica. Sono doveri, diritti e senso di responsabilità che non riguardano solo imprese e cittadini, ma richiedono una rinnovata consapevolezza del ruolo «di esempio» dello Stato e delle sue articolazioni territoriali. Le grandi speranze in un modello federale delle istituzioni italiane si sono infrante sul confuso e conflittuale regionalismo che è scaturito dalla riforma del 2001 del Titolo v della Costituzione che non ha realizzato l’attesa semplificazione e riforma dello Stato, ma un ulteriore appesantimento di strutture istituzionali e legislative. I lentissimi pagamenti dei debiti della Pubblica amministrazione hanno accentuato la crisi assommandosi all’alta pressione fiscale. Solo realizzando riforme, innanzitutto costituzionali, non confuse, ma frutto delle grandi culture occidentali, e innestando un circuito virtuoso con più etica e più efficienza, a cominciare dalle istituzioni, si potrà costruire e rafforzare davvero una non effimera speranza e favorire una ripresa realmente solida e duratura.
Di Antonio Patuelli
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