Da La Gazzetta del Mezzogiorno Ed.Basilicata del 16 luglio
Capita a tanti giornalisti, soprattutto a chi si occupa di cronaca. Si incontrano notizie che sono racconti e luoghi che chiedono di non essere dimenticati. Scatta l’archivio della memoria. Una raccolta di materiali, a prima vista eterogenei che, in realtà, segue traiettorie non divergenti. Appaiono invece omogenei alla distanza, quando ormai ogni torsione, tipica dei giudizi a caldo, si è ormai del tutto dissolta. A quel punto parte la narrazione. Bussa alla porta. Qualcuno l’ha definita una sorta di tentazione alla quale il cronista di razza, prima o dopo, cede. È accaduto anche ad Alessandro Calvi, acuto notista della travagliata vita politica nazionale. Testimone di anni in cui, lentamente, le dinamiche della democrazia parlamentare hanno subito distorsioni tali da accorciare quasi definitivamente le distanze tra potere esecutivo e giudiziario, con tanti saluti a quello legislativo. Hanno ammazzato Montesquieu!, così s’intitolava il suo ultimo libro. Un fine lavoro, dove il «colore» di alcune pagine spiccava con forza. Ora, Calvi, è tornato con un’altra buona prova, confermando una passione per la scrittura che diventa racconto per tutti. Questa volta, bisogna dirlo, confezionato in un elegante e struggente «bianco e nero». Una scelta precisa, che pervade le parole e i capitoli di Paracarri – Cronache da un’Italia che nessuno racconta, edito nella collana Zonafranca, da Rubettino editore. Diciotto zoommate, precedute da una prefazione e chiuse con un proscritto, da non confondere con le malinconie di romantici viaggiatori, tipo Grand Tour. Ma come avverte Calvi, il titolo, Paracarri già dice di quale viaggio si tratta: «È un doppio omaggio: alle vecchie strade nazionali e al racconto contenuto in una canzone di Paolo Conte, Bartali, che hanno accompagnato, come fossero il manifesto, la scrittura di questo libro». Indirizzo lampante, con valigia, block notes e macchina fotografica al seguito. Calvi annota le suggestioni che le vecchie strade – e anche tanti maestri citati in quasi tutte le pagine di ariose descrizioni, forse spesso dimenticati, ma non per questo meno attuali – anticipa, dicevamo, quanto riescono ad evocare i percorsi non più battuti dalla grande massa di turisti. Comprendono le concrete riflessioni su Matera, che parlano anche dell’altopiano Murgico. Ma forse è il meno. Da Nord a Sud, il vero cronista sceglie il percorso meno agevole, immergendosi nelle pieghe spesso allucinate di un ventre molle, quello di un Paese che non racconta più nessuno, anche perché il reportage è faticoso, ormai merce davvero rara in tempi liquidi e di social media a manetta, mentre guardarsi allo specchio fa quasi sempre male. «Si scelse insomma di dimenticare – come spiega la lapidaria sintesi finale stampata sull’ultima di copertina – perché ce n’era abbastanza per voler dimenticare».
Di Pasquale Doria
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