C’è un risvolto «giapponese» nella visita a Palermo di Papa Francesco, che si svolge per lo più in memoria e omaggio alla figura di don Pino Puglisi, il sacerdote ucciso dalla mafia nel 1993 e proclamato beato nel 2013.
Due giorni dopo aver annunciato a un gruppo di pellegrini nipponici il suo desiderio di andare l’anno prossimo in Giappone, il pontefice – nel quadro degli incontri in Cattedrale – riceve oggi in dono un dipinto della pittrice Arisa Doya che raffigura il siciliano Giovanni Battista Sidoti, noto come «l’ultimo missionario» a recarsi nel Sol Levante, agli inizi del Settecento.
Quando da decenni la religione cristiana era stata bandita, anzi: era proibito a qualunque straniero mettere piede nell’arcipelago. Il fratello del Sidoti, tra l’altro, fu nominato vescovo di Catania e un suo ritratto è presente nella sacrestia attigua. A portargli il dipinto è padre Mario Canducci, missionario francescano che opera da molti decenni in Giappone, accompagnato da don Mario Torcivia, il sacerdote che ha formulato la «positio» per la causa di beatificazione di don Puglisi e che ora sta raccogliendo la documentazione per l’avvio della causa di beatificazione di Giovanni Battista Sidoti.
Il caso Sidoti
Torcivia ha gà scritto una biografia (per Rubbettino editore) del sacerdote palermitano (1667-1715) che ottenne dal Papa il permesso di compiere una missione quasi suicida da lui ardentemente desiderata: cercare di riaprire il Sol Levante all’evangelizzazione, dopo la chiusura ermetica del Paese seguita alle più grandi persecuzione del cristianesimo dai tempi dell’impero romano.
I resti del Sidoti furono rinvenuti 4 anni fa della zona dell’ex prigione dei cristiani a Tokyo, come confermato due anni dopo dalle autorità giapponesi dopo approfondite verifiche scientifiche. Il Museo della Scienza e tecnologia di Ueno gli dedicò una mostra, con anche la riproduzione tridimensionale delle sue fattezze. La vicenda ha suscitato un grande interesse più in Giappone che in Italia, anche perché il suo caso va ad di là delle sole implicazioni religiose: il Sidoti fu interrogato in carcere da un famoso studioso confuciano e consigliere dello Shogun, Arai Hakuseki, che ne ammirò le qualità intellettuali e umane e apprese da lui una serie di cognizioni che fecero da base a studi geografici e scientifici. Proprio il rinvenimento degli scritti di Arai Hakuseki, a metà Ottocento, chiarì le circostanze della fine del Sidoti, di cui fino ad allora non si era saputo più nulla (dopo il suo sbarco a Yakushima nel 1708).
Verso una causa di beatificazione
Il nome del missionario è spesso riportato come «Sidotti», ma Torcivia (probabile futuro postulatore della causa) insiste nel raccomandare la dizione giusta, Sidoti, come ha rinvenuto negli archivi della Chiesa palermitana (fu battezzato nella parrocchia di Santa Croce, in una chiesa che non esiste più in quanto distrutta dai bombardamenti del 1943).
Una scambio di lettere è avvenuto tra gli arcivescovi di Palermo e Tokyo: la parte giapponese acconsente che la causa venga seguita a Palermo, offrendo naturalmente la sua collaborazione per tutto quanto riguarda la documentazione in terra nipponica. «Si tratta in via preliminare di stabilire la giurisdizione – afferma Torcivia – Normalmente, la causa viene avviata dalla diocesi del luogo di decesso. Siamo ora in attesa della decisione della Congregazione per le cause dei Santi». Sidoti fu un martire per la fede, sottolinea Torcivia. Anche se Arai aveva suggerito la soluzione senza precedenti di rimandarlo in Occidente, la sua vicenda umana finì infatti con un feroce inasprimento del regime carcerario che lo condusse alla morte a soli 48 anni: rinchiuso in una buca con un piccolo pertugio per respirare e ricevere un poco di cibo. Ciò perché i due servi giapponesi finirono per autodenunciarsi alle autorità, riferendo che Sidoti li aveva battezzati. Lui lo fece nella consapevolezza che, se questo fosse stato scoperto, ne avrebbe pagato le estreme conseguenze. I due servi erano anziani e avevano servito e controllato in gioventù un altro missionario siciliano, Giuseppe Chiara, morto nel 1585 (la sua vicenda, comprensiva di apostasia sotto tortura, ha ispirato il romanzo di Shusaku Endo Silenzio, da cui Martin Scorsese ha tratto il film Silence del 2016).
Il papa verso il Giappone nel 2019
L’avvio della causa di beatificazione potrebbe essere formalizzato nel corso della visita in Giappone che Papa Francesco ha detto il 12 settembre di voler effettuare, ricevendo in Vaticano i membri di una associazione giapponese intitolata alla prima trasferta in Europa fatta da giapponesi: nel 1585 quattro giovani principi della zona del Kyushu visitarono Italia e Spagna, portati dai gesuiti. Furono gesuiti i primi evangelizzatori del Sol Levante, tra i quali spiccano il pioniere San Francesco Saverio e l’abruzzese Alessandro Valignano (fautore ante litteram dell’«inculturazione» del messaggio cristiano nel rispetto della cultura dei popoli). A Tokyo oggi gestiscono la prestigiosa Università Sophia e due degli ultimi superiori generali, Pedro Arrupe e Adolfo Nicolas, vi hanno vissuto a lungo. Il giovane Bergoglio aspirò, da novizio, a essere inviato in missione in Giappone (il che non si realizzò). Già nell’incontro in Vaticano del 2014, il premier Shinzo Abe aveva invitato il pontefice nel suo paese. Solo una brutta battuta dire che sia don Pino Puglisi sia don Giovanni Battista Sidoti sono andati in missione «in partibus infidelium». Ma, afferma Torcivia, pur in contesti completamenti diversi, il rischio della vita per veicolare il messaggio cristiano e una morte da martiri li accomuna.
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