Da Domenica (Il Sole 24 Ore) dell’1 maggio
È il 1938: il playboy milionario Baruch Wane apprende dal Kornissar Garten che la polizia ha requisito la biblioteca di un economista ebreo, Ludwig von Mises. L’alta società di Berlino fatica a immaginare, ma noi ci riusciamo benissimo, che Baruch altri non è che il misterioso Batman, impegnato nottetempo a far giustizia degli alti papaveri del partito nazista. «Ludwig von Mises – scrive l’assistente di Baruch, Robin, nelle sue memorie – è fuggito negli Stati Uniti quando i nazisti hanno saccheggiato il suo appartamento. Era stata la sua padrona di casa a dire alle autorità che von Mises stava scrivendo un nuovo libro che avrebbe messo a dura prova le politiche sociali ed economiche del nazismo. Ha continuato a lavorare su quel saggio, pubblicato nel 1949 col titolo di Human Action».
Non sono molti i libri di economia ad essere finiti in un fumetto di Batman, nello specifico un albo delle «Batman Chronicles» del 1998, autore Paul Pope. Non è forse un caso se ciò è successo per L’azione umana di Ludwig von Mises, monumentale trattato di economia ora ripubblicato da Rubbettino. È la seconda edizione italiana. La prima uscì per Utet nel 1959, ma in qualche modo in sordina. Quella traduzione è stata rivista con cura certosina da Lorenzo Infantino e Nicola Iannello, cui va il merito di averci restituito un testo tanto significativo. Mises è un pezzo della storia del Novecento. Era stato, come Joseph Schumpeter, allievo di Eugen von Bohm-Bawerk ma ebbe una carriera più accidentata di Schumpeter. Si tratta di un teorico autentico, interessato alle grandi domande delle scienze sociali ma nello stesso tempo desideroso di partecipare ai dibattiti del proprio tempo. Prima dell’ascesa al potere di Hitler, che lo indusse a riparare in Svizzera e poi negli Stati Uniti, era stato capo economista alla Camera di Commercio di Vienna. Lì teneva un seminario privato, in cui si formarono Fritz Machlup, Gottfried Haberler e, ovviamente, Friedrich von Hayek.
Se in Svizzera insegnò all’Institut de hautes études internationales, negli Usa non riuscì purtroppo a trovare una collocazione accademica stabile. Maggior fortuna ebbero i suoi allievi (Machlup a Princeton, Haberler a Harvard, Hayek al Committee on Social Thought di Chicago). Mises si dedicò alla scrittura e di nuovo cominciò a tenere corsi di natura seminariale, stavolta presso la New York University. Il prestigio era modesto, ma la semina formidabile: fra i suoi studenti Israel M. Kirznere Murray N. Rothbard, grazie ai quali la “scuola austriaca” ha messo radici negli Usa. Le carte di Mises furono effettivamente sequestrate dai nazisti, dopo l’Anschluss. Finirono poi a Mosca, dove sono state ritrovate negli anni Novanta.
Mises è noto soprattutto per un saggio del 1920, nel quale sostenne l’impossibilità del calcolo economico in una economia di piano. Eliminando i diritti di proprietà sui fattori produttivi, spiegò, essi vengono sottratti all’asta continua del libero mercato: non si può dar loro un prezzo. Pertanto, essi non vengono allocati nel modo di volta in volta più produttivo: il socialismo, dunque, è condannato a sprecare risorse. Di lì ebbe inizio il cosiddetto «dibattito sul calcolo economico», che vide Mises e Hayek confrontarsi con autori quali Oskar Lange, Abba Lerner, Maurice Dobb. Mises non si lasciò affascinare dai tentativi di «simulare» i prezzi, e continuò a difendere il mercato vero e proprio. In anni in cui gli economisti profetizzavano il sorpasso dell’Unione Sovietica sugli Stati Uniti, non sorprende che sia passato per «reazionario». Ma Mises non era né reazionario né conservatore: e nulla lo testimonia meglio delle novecento pagine de L’azione umana. Quella della scuola austriaca, ricorda Lorenzo Infantino nella sua cristallina introduzione, è «una teoria dell’azione». L’azione umana è sempre «economica», nel senso della «costruzione razionale della scala dei mezzi»: le risorse sono scarse, gli individui desiderano farne l’uso che a ciascuno pare più efficiente.
Non è detto invece che sia sempre razionale per quel che riguardai fini. Mises rigetta il cliché dell’homo oeconomicus, non riduce gli individui a «massimizzatori» di alcunché: li accetta per quel che sono. L’individualismo metodologico della scuola austriaca (diverso da quello di Weber, spiega Infantino) la schiera contro la «reificazione» dei concetti collettivi. S’alza il velo sullo «Stato» ma anche sui «mercati»: che sono solo una metafora, per dire il continuo scambiare in cui, ogni giorno, sono coinvolte milioni di persone. Mises non era un entusiasta della formalizzazione matematica dell’economia, che pensava avrebbe prodotto una lettura semplificata dei fenomeni sociali. Ma della scienza economica, e della sua razionalità, è stato forse il più acceso difensore. «La funziona storica della teoria della divisione del lavoro(…) consiste nella completa demolizione di tutte le dottrine metafisiche sull’origine e lo svolgimento della cooperazione sociale». L’economia politica «ha realizzato l’emancipazione spirituale, morale e intellettuale dell’umanità», dimostrando come l’ordine sociale sia frutto di un complesso intrico di relazioni, non di un disegno predeterminato. Fu un’emancipazione di breve durata: messa a rischio dall’emergere di dottrine per le quali l’individuo era nulla, e invece lo Stato tutto. Per il suo discepolo Hayek, la pianificazione economica è viziata dalla «presunzione di sapere»: vorrebbe orientare la produzione ma è naturalmente sprovvista di tutte le informazioni necessarie, che sono disperse nella società e difficilmente aggregabili da un qualche, pur lungimirante, funzionario.
Il socialismo è invece per Mises una «rivolta contro la ragione». Gli argomenti degli economisti classici bastavano a dimostrarne l’impraticabilità. Ma Marx mise da parte «la logica e la ragione», sostituendole con «intuizioni mistiche». La dialettica serviva a ingarbugliare le carte, era un abracadabra per affidarsi alle onnipotenti forze della storia. Nel contempo, «sviluppandola dottrina dell’ideologia, Marx puntava esclusivamente a colpire l’economia». I socialisti s’inventarono una borghesia uniforme e omogenea e videro nel «libero scambio» nient’altro che la sua sovrastruttura. Adire il vero, ricorda Mises, i potenti non amano la concorrenza, dalla quale preferiscono venire protetti. L’abolizione dei dazi sul grano e il free trade a metà Ottocento non soddisfecero in egual misura tutti i detentori dei mezzi di produzione, da alcuni di essi furono avversati. Solo che azzerare una teoria nel gioco degli interessi risparmia la fatica di doverla confutare. Al pari che nascondersi dietro ai vessilli del «popolo» o della«nazione».
Sotto alcuni aspetti, Mises oggi ci sembra l’ultimo illuminista. Un appassionato difensore del dovere di provare a comprendere il mondo, che lo si voglia cambiare oppure no.
di Alberto Mingardi
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