Esce in questi giorni nella collana di Politica diretta da Dario Antiseri l’ultimo libro di Corrado Ocone, edito da Rubbettino, “Il non detto della libertà”.
“Il non detto” è ciò che rimane fuori da ognuno dei diversi modi di concepire la libertà: il politico, l’economico, il giuridico, il metafisico, quello che tende a distinguere le “due libertà” (la positiva e la negativa). Da qui l’esigenza di non chiudersi in un confine disciplinare o metodologico. Anticipiamo qui la conclusione del capitolo dedicato a Friedrich von Hayek.
Hayek, nel ribadire a più riprese che la sua è una generale teoria della società, evidenzia anche che la sua “ricaduta” politica ne è una conseguenza. L’individualismo vero, scrive, è, “innanzitutto, una teoria della società, un tentativo di capire le forze che determinano la vita sociale dell’uomo, e solo in seconda istanza si configura come una serie di massime politiche derivate da questa concezione della società”. La politica si presenta quindi come una sorta di “applicazione” pratica di una teoria veritativa, indipendentemente dal fatto che nel caso in questione trattasi di una “verità” non razionalisticamente intesa, e anzi segnata da imperfezioni e precarietà. In questo modo, la politica, con la sua alta intensità di conflittualità, e quindi con la assoluta non prevedibilità dei suoi esiti, viene neutralizzata. La legge e il diritto, nella loro formalità e universalità, cioè così come si presentano nella rule of law o diritto consuetudinario anglosassone, sono in Hayek lo strumento principale di questa neutralizzazione (e non il mercato come spesso si pensa). È un processo diversamente atteggiato, e anzi opposto, ma in sostanza molto simile a quello delle filosofie o teologie politiche non liberali su cui Hayek lancia a ragione i suoi strali. Non si tratta, in effetti, semplicemente di tener presente l’elemento della diffusione e dispersione delle conoscenze umane, non centralizzabili, ma anche della necessità di comprendere che, mosso dall’interesse, l’uomo, con le sue forze vitali, travalica sempre l’ambito di ciò che effettivamente dovrebbe essere e del potere che dovrebbe avere. Forze vitali che non possono essere estirpate ma solo contrapposte le une alle altre: esse sono infatti, nello stesso tempo, forze distruttive e autodistruttive ma anche creative. E non sono razionalizzabili come Hayek, che pur le considera, crede si possa fare. In questa ottica, in cui è da intendersi nel senso più profondo il concetto della costitutiva politicità dell’essere umano (percorso anch’egli da forze plurali e conflittuali), il concetto di individuo non può che apparire un presupposto, una datità irrelata e non giustificata. Così come non si può non concludere che l’equilibrio della società, ma anche quello della vita, nasce sempre da un equilibrio (tragico se vogliamo) fra equilibrio e disequilibrio. È in questa dimensione di tensione, che fa i conti con la pro- duttività del negativo, che vive (precariamente) l’uomo, non nell’astrattezza di una legge costituita.