dal Corriere di Como (Corriere della Sera) del 24 Novembre
Si può ancora parlare delle “mafie del Nord”? Oppure è necessario aggiornare (e in fretta, anche) gli strumenti e i metodi di analisi delle attività della criminalità organizzata italiana per evitare di cadere in pericolose e insidiosissime trappole semantiche?
La risposta a questa domanda, evidentemente retorica, giunge in contemporanea da due nuove pubblicazioni, da pochi giorni in libreria. Enzo Ciconte, storico della ‘ndrangheta, docente universitario ed ex parlamentare, ha dato alle stampe un agile volume, ricco di dati e tabelle comparative (“Le proiezioni mafiose al Nord”, Rubbettino Editore, pagine 140, euro 10), mentre la rivista di geopolitica “Limes” ha dedicato l’ultimo fascicolo al tema della espansione internazionale delle cosche (“Il circuito delle mafie”, pagine 200, euro 14).
Se dalla metà degli anni Settanta si era parlato – non senza ragione – della migrazione delle famiglie mafiose dal Sud del Paese verso le regioni più ricche, oggi lo scenario appare mutato.
Non perché vi sia un riflusso o un abbandono improvviso del territorio da parte dei capibastone insediati al Nord. Tutt’altro.
L’analisi si fa più complessa. E porta dritto a immaginare una mafia (intesa in senso ampio) strutturata in modo unitario, che occupa militarmente più luoghi diversi tra loro ma con identica (e terribile) efficacia.
Insomma: il Nord non più come terra di conquista ma come luogo di affermata espansione. Vivaio della nuova generazione di ‘ndranghetisti, ad esempio, che pur mantenendo uno strettissimo legame con la madre Calabria prosperano e crescono secondo logiche criminali assolutamente identiche tra loro.
Il 31 ottobre 2009, seduti attorno a un tavolo del circolo Arci di Paderno Dugnano intitolato ai giudici Falcone e Borsellino, sono inquadrati dalle telecamere dei carabinieri i mammasantissima che governano le “locali” già strutturate della ‘ndrangheta di Milano, Como, Lecco, Varese, Pavia. «Generali di un’antica e sanguinaria tribù – scrive Piero Colaprico su Limes – che ha lasciato il mare e i boschi della Calabria per i capannoni, le industrie, il riciclaggio, i ristoranti. Persone che sottomettono brianzoli e milanesi, vanno a braccetto con le amministrazioni locali, si muovono armati di revolver lungo le tangenziali che portano all’Expo».
La ‘ndrangheta lombarda è ormai «un solo corpo e una sola testa» con quella calabrese.
«Quello che in decenni di inchieste al Nord e al Sud appariva come un rosario di famiglie, faide e faccende scollegate si profila ora come una cupola». Se tutto questo è vero – e lo è, così come dimostrato da recenti sentenze di primo e di secondo grado pronunciate dal Tribunale di Milano al termine dei processi ai clan lombardi – l’idea di una mafia che dal Sud si muove alla conquista del Nord deve essere messa definitivamente da parte. «Dal punto di vista criminale – dice Enzo Ciconte – Milano è in provincia di Reggio Calabria». Le famiglie della mafia calabrese «hanno creato forme di collegamento e di direzione più impegnative rispetto al passato. Una struttura unica di gestione degli affari criminali».
Nel suo ultimo libro, Ciconte dedica un capitolo ai «luoghi comuni» sulle mafie, con l’obiettivo dichiarato di smontarli.
«Tra i tanti motivi che resero il Nord restio a prendere atto del cambiamento della realtà c’è stato un dato culturale: una certa interpretazione della nascita della mafia ha inoculato una serie di errori clamorosi e gravi. Secondo questa interpretazione, la nascita della mafia si verificò soltanto in zone arretrate, di povertà, di fame, di miseria, di desolazione, di abbandono e di degrado. Insomma, prevalse una facile equazione: laddove c’è miseria e sottosviluppo, lì c’è mafia. La storiografia più recente ha dimostrato che questa interpretazione era profondamente errata e non serviva né a comprendere le ragioni né a individuare i luoghi d’origine e di diffusione», scrive Ciconte.
Sin dalle origini, dice ancora lo storico calabrese, «c’è stato chi ha sostenuto che la mafia non fosse un’organizzazione strutturata e neanche un’associazione formalmente costituita». Un tragico errore, di cui si sono pagate le conseguenze a lungo. Lo stesso potrebbe accadere oggi se non si comprendesse l’unitarietà di un fenomeno in forte espansione.
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