Da Il Mattino del 2 settembre
È un bene che l’editore Rubbettino abbia deciso di pubblicare anche in Italia uno dei libri più interessanti dello storico inglese John Anthony Davis. Uscito in lingua originale nel 2006, Napoli e Napoleone (pagg. 569, euro 29) è un testo importante, scritto in stile scorrevole da un accademico, in grado di smantellare molti pregiudizi sul Mezzogiorno anche per gli anni che precedettero eseguirono il decennio francese dei re Giuseppe Napoleone e Gioacchino Murat.
Qualche mese fa, tanto si è scritto e dibattuto sullo stanco luogo comune del Sud depresso e retrogrado all’alba dell’unità d’Italia. Ma già otto anni fa, Davis affermava con sicurezza, confortato da un massiccio numero di documenti consultati anche negli archivi del suo Paese: «Guardando al passato, gli italiani hanno scritto la storia dell’unificazione basandosi sull’idea di nazione e nazionalismo, ragion per cui è facile dimenticare le altre cause che resero sempre più difficile nella Penisola la sopravvivenza degli Stati dinastici indipendenti».
E ancora, sempre senza equivoci: «Le letture centrate sul contrasto tra un Nord moderno e un Sud arretrato non solo hanno messo in evidenza differenze che non avevano riscontri nella realtà, ma hanno oscurato le discrepanze effettivamente esistenti».
C’è poco da discutere su quest’affermazione, frutto anche dell’analisi approfondita sugli anni delregno borbonico che precedettero la Repubblica del 1799. Anni complessi, che misero in discussione, attraverso l’azione centrale della monarchia, il potere senza freni dei feudatari e dei potentati locali uniti al clero. La questione delle terre, delle ricchezze demaniali su cui era consentito il pascolo e la raccolta di legna, le piccole coltivazioni da affidare a non proprietari furono al centro dei contrasti centro-periferia, capitale-province. Segnarono la crisi della dinastia borbonica, eppure furono premesse alle riforme che, su quella scia, avviarono i francesi negli anni del loro regno nel Sud d’Italia. La morte del feudalesimo produsse la nascita di una borghesia rurale, con l’affermazione di latifondisti difesi da braccia armate personali, in un rinnovato, ma sempre uguale, potere locale. Quegli stessi latifondisti si fecero poi liberali, per acquisire anche potere politico da unire al controllo economico, in contrasto con l’accentramento amministrativo e il dominio della monarchia. Per questo, dimostra Davis con l’esempio di vicende raccolte soprattutto in Puglia, Calabria e Sicilia, alla restaurazione del 1815 le riforme approvate nel decennio francese non furono mai messe in discussione dai Borbone. E anche questa frattura alimentò poi la caduta del regno delle Due Sicilie.
Davis non ama il pregiudizio che alcuni storici dimostrano, nel voler ad ogni costo attribuire al sottosviluppo del Sud nel 1861 l’unica causa dei divari con il resto d’Italia, in realtà inesistenti nei termini descritti da alcuni testi.
L’analisi, avviata da tempo anche da diversi economisti italiani, parla invece di arretratezza complessiva dell’Italia rispetto ad altre nazioni dell’epoca molto più avanti nel loro sviluppo produttivo, come Gran Bretagna e Francia. E furono proprio le dinamiche commerciali, il potere economico inglese ad influenzare il fallimento dei tentativi di autonomia del Sud, stretto tra boicottaggi stranieri ai propri prodotti e difficoltà a sostenere il consumo interno con il protezionismo industriale che penalizzava le importazioni di merci straniere, prime fra tutte le inglesi.
Scrive Davis: «Le trasformazioni sociopolitiche che ebbero luogo nel Sud durante il cinquantennio preunitario rispecchiarono e, in molti casi, anticiparono quelle degli altri Stati italiani». La lettura dello storico inglese inquadra poi l’illusione repubblicana del 1799 nello scenario di interessi imperiali francesi: Napoli e il Sud serbatoio di tasse e soldati per Parigi.
Le conclusioni arricchiscono e integrano il dibattito sul divario Nord-Sud avviato qualche mese fa anche da questo giornale. Si accenna alla guerra degli zolfi, materia prima estratta in Sicilia indispensabile agli inglesi, che condizionò il giudizio politico di quel Paese sul regno di Ferdinando II di Borbone. Sir Gladstone, che bollò le Due Sicilie come «regno negazione di Dio», nel 1839 era stato, lo ricorda Davis, «portavoce nella Camera dei Comuni per i mercanti inglesi interessati al commercio siciliano dello zolfo, mentre precedentemente aveva scritto un resoconto più che positivo del governo borbonico a Napoli». Insomma, altro che voce liberale disinteressata.
Ma il saggio di Davis accenna ad altre verità, spesso negate: «Nel 1848 le pretese indipendentistiche locali e municipali avevano causato tumulti in tutti gli Stati italiani. In Piemonte, la rivolta genovese contro Torino fu sedata nel 1849 con la stessa violenza usata dai Borbone a Messina e a Palermo». Nulla che non si sapesse già, ma che lo ribadisca un autore dell’autorevolezza scientifica di Davis, cui certamente non possono imputarsi simpatie borboniche, assume particolare rilievo.
Il regno del Sud crollò per tensioni tra capitale e province, tra Sicilia e terraferma, per interessi commerciali delle grandi potenze, nella difesa di poteri e prerogative che i latifondisti, opportunamente diventati liberali per interessi economici e politici personali, avevano necessità di difendere per sopravvivere senza rivoluzioni. Di questa realtà, // Gattopardo fu felice descrizione narrativa.
Ma, inutile negarlo, la parte più succosa del voluminoso lavoro di Davis riguarda lo pseudo – divario tra Nord e Sud all’alba dell’unità d’Italia. Scrive lo storico inglese, professore di storia italiana ed europea all’Università del Connecticut e anche membro dell’Istituto italiano per gli studi filosofici: «Non si può neanche sostenere che le condizioni economiche e sociali al Sud fossero peggiori del resto d’Italia all’epoca dell’unificazione. Verso la fine del secolo, la povertà era una condizione comune a molti italiani e c’erano ben poche differenze fra le regioni meridionali e quelle centro – settentrionali». Lo affermò, già nel 1902, l’indagine di Bolton King e Thomas Okey sull’italia.
Aggiunge Davis: «C’erano diverse aree attive nel commercio al Sud, anche se non trassero vantaggio dall’incremento degli scambi degli anni Cinquanta che portò benefici ai centri più sviluppati nel Nord». La conclusione successiva sembra mettere un sigillo alle polemiche più recenti: «Nel 1860 le differenze economiche tra il Nord e il Sud erano di gran lunga inferiori a quelle che ci sarebbero state 40 anni più tardi, quando il nuovo Stato italiano smantellò le bardere protettive che avevano portato allo sviluppo delle industrie tessili, di ingegneria e di edilizia navale meridionali». E ancora: «Nello stesso anno 1860, i numeri dell’industria erano migliori al Sud che in qualsiasi altra parte della penisola». Un libro destinato a riaprire discussioni. Se la traduzione italiana fosse stata pubblicata prima, probabilmente ci saremmo risparmiati le ultime sterili polemiche sullo stantio dibattito tra bórbonesimo e antiborbonesimo, o il neologismo «sudismo» a definire chi ha sostenuto alcune delle tesi che Davis aveva già argomentato otto anni fa.
Di Gigi Di Fiore
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