L’interpretazione del fascismo, data da Renzo De Felice, ha subito fin dal suo sorgere violente e spesso ingiustificate obiezioni da parte di quella che Giuseppe Galasso chiamò, con azzeccata definizione, «la sinistra storiografica». In questi ultimi tempi, a queste contestazioni se ne sono aggiunte altre, di diverso segno, formulate da studiosi che pure sono «discesi per li rami» dalla scuola dell’autore della biografia di Mussolini. E’ questo il caso di Emilio Gentile, che, già sostenitore della tesi anti-defeliciana, e a mio avviso per nulla fondata, secondo cui il fascismo avrebbe costruito un sistema totalitario analogo a quello sovietico e nazionalsocialista, ha pubblicato ora, per i tipi di Laterza, un volume dedicato alla fase terminale del regime, “25 luglio 1943”, anche esso molto critico verso la ricostruzione di quell’evento fatta dal suo maestro.
Questi in sintesi i nodi della «revisione» di Gentile:
1. Nessuno dei «congiurati» (usiamo questo termine per comodità) della notte del Gran Consiglio poteva vantare quella limpienza de sangre anti-mussoliniana da loro poi spacciata, a piene mani, nelle memorie apologetiche diffuse nel dopoguerra.
2. Nessuno di essi, entrando nel pomeriggio del 24 luglio a Palazzo Venezia voleva rovesciare il Duce. I gerarchi puntavano a commissariare Mussolini, a metterlo, per così dire sotto tutela, restituendo a Vittorio Emanuele, la pienezza del Supremo Comando militare per arrivare a una pace separata con gli Alleati.
3. Neppure il Re, né tantomeno l’imbelle principe di Piemonte, ipotizzarono di rimuovere il Capo del governo. Quella decisione fu adottata dal Quirinale solo al cinquantanovesimo minuto, quando Vittorio Emanuele III si accodò al putsch organizzato dal Capo di Stato Maggiore Generale, Vittorio Ambrosio, e dai suoi più stretti collaboratori.
4. In ultima analisi, fu proprio Mussolini, precocemente invecchiato, malato, persuaso del totale fallimento del suo programma di politica estera, con la sua assoluta mancanza di reazione, a essere il maggior corresponsabile del crollo della dittatura, come un malato terminale, che stanco di lottare, preferisce porre termine alla sua esistenza, affidandosi alle pietose cure di un trattamento di fine vita.
Alcuni degli argomenti messi in campo da Gentile sono largamente condivisibili, altri, francamente, no e anzi costituiscono un’interpretazione sviante della dinamica politica che portò alla «notte del giudizio del regime». Veniano a esaminare i primi.1. E’ vero che nessuno dei «gerarchi felloni», neppure il cosiddetto «triunvirato» (Bottai, Federzoni, Grandi) prese le distanze dalla dittatura, prima dell’esito disastroso della seconda battaglia di El Alamein (5 novembre 1942), se non con il consueto mugugno verso «il Principale» e con atteggiamenti meramente frondisti. Se Ciano dopo la sigla del Patto d’Acciaio si vantò, con la cerchia dei suoi intimi, di aver collocato una potente carica di dinamite sotto le fondamenta della vecchia Europa, Grandi non gli fu da meno. Proprio a Ciano, Grandi, infatti, scriveva, il 20 maggio 1939, circa quindici giorni dopo i colloqui di Milano tra Ribbentrop e il genero del Duce, preliminari alla firma dell’infausta alleanza, una esultante corrispondenza. Nella lettera si affermava che «l’intesa militare italo-tedesca è il colpo più grosso che poteva essere inferto alla politica delle democrazie e apre nuove e vaste possibilità alla tua azione diplomatica non solo in direzione della Germania ma anche del Regno Unito, perché ci fa, finalmente, più forti a Londra e a Berlino, accresce le nostre possibilità d’azione in campo internazionale e rende l’Italia fascista l’arbitra della pace e della guerra».
2. Esatto è anche che il Re, timoroso di una devastante vendetta britannica contro l’Italia, fu, fino all’ultima ora, contrario alla deposizione del Duce, persuaso da una parte che Mussolini avrebbe potuto ribaltare la situazione militare, convincendo Hitler a siglare un armistizio con Stalin, e convinto, dall’altra, che la fine del fascismo avrebbe portato in tempi rapidi, a quella della monarchia. Indiscutibile, altresì, è che la maggioranza dei gerarchi, e il Sottosegretario agli Esteri, Giuseppe Bastianini, in particolare, miravano a un semplice ridimensionamento politico del Duce, e non alla sua rimozione, calcolando con sconsiderato ottimismo che Mussolini avrebbe potuto salvaguardare il nostro Paese dalla furiosa rappresaglia di Berlino, quando il governo di Roma avesse deciso di abbassare le armi dinanzi agli Alleati. I nostri punti di disaccordo con la lettura di Gentile, che qui elenchiamo, superano però, e di molto, quelli di consenso.
1. Che in Italia si stesse mettendo in moto un pur disarticolato e mal connesso meccanismo per arrivare alla liquidazione del capo del fascismo era cosa perfettamente cognita nelle capitali di due Stati esteri (Regno Unito e Vaticano) ambedue dotati di un efficacissimo e sperimentato servizio d’informazioni. Già a febbraio del 1943, Eden riferiva, ai suoi colleghi di gabinetto, che per arrivare alla deposizione del Duce, lavoravano molte forze attive nella società italiana. Agli esponenti dei poteri forti dell’industria e della finanza (Valletta, Cini, Pirelli, Volpi di Misurata) si dovevano aggiungere i cosiddetti «Opportunist Fascists» (Grandi, Bottai, lo stesso Ciano), convinti di poter succedere a Mussolini alla guida di un «defascisted Fascism». Nella lista compilata da Eden, non mancavano i vertici delle Forze Armate e il vecchio Maresciallo d’Italia, Enrico Caviglia. Né era assente Badoglio che, a fine dicembre 1942, aveva già depositato la sua candidatura a nuovo Capo del governo nelle mani del Segretario di Stato vaticano Maglione, e che, ancora prima del nostro ingresso in guerra, era stato additato dall’intelligence inglese come il candidato più idoneo, per impersonare, a carte rovesciate, il ruolo di Francisco Franco.
Anche se Eden nutriva forti e sensati dubbi sulla partecipazione di Casa Savoia a questa trama (fatta salva la principessa, Maria Josè), i calcoli del Foreign Secretary, pure, peccavano, per difetto, perché alla combinazione golpista si sarebbero uniti, nei mesi successivi, numerosi Prefetti, il capo della Polizia politica fascista, Lorenzo Clerici e il Sottosegretario all’Interno, Umberto Albini. La Santa Sede, per sua parte, perfettamente al corrente dell’imminente colpo di mano, anche nei suoi aspetti militari, aveva rinsaldato, intanto, i rapporti con gli oppositori interni del regime (Grandi, Bottai, Ciano e altri gerarchi di primo piano). Inoltre, il Vaticano aveva fatto tutto il possibile per favorire i contatti tra Vittorio Emanuele III (che il Pro-segretario di Stato di Pio XII, Domenico Tardini, aveva sprezzantemente definito, per la sua inazione, un «Re Travicello»), gli esponenti della vecchia guardia liberale e della giovane leva politica antifascista, in vista della formazione di un nuovo governo che avrebbe segnato, sul piano istituzionale, il trapasso di regime.
2. E’ sicuramente ragionevole dire che i vertici militari svolsero un ruolo importante per arrivare alla liquidazione del Duce ma non, tuttavia (come sostiene Emilio Gentile) che le alte sfere del Regio Esercito si siano mosse, in piena autonomia, senza cercare una sponda politica alla loro azione. Il 24 febbraio 1943, l’ex Segretario agli Esteri. Halifax, allora ambasciatore a Washington, informava Eden dell’«esistenza di un complotto militare per dare il potere al Principe di Piemonte e rovesciare il governo, organizzato con la complicità di Grandi e Ciano». Non era quella, forse, una fake new, simile alle tante che circolarono in quella convulsa fase della vita italiana. Sappiamo, infatti, che nel gennaio 1943, Giuseppe Castellano, molto vicino ad Ambrosio e da lui nominato a capo della strategica direzione «Sezione Piani e Operazioni», si servì di Blasco Lanza d’Ayeta (una creatura di Ciano) per proporre al «genero di regime» la possibilità di liquidare il suocero con «un colpo di stato interno, e, al contempo, di mettere in atto provvedimenti idonei a respingere un’eventuale reazione dei tedeschi». Né, d’altra parte, Ambrosio, come apprendiamo dalle fonti vaticane, militare di vecchia scuola, fedelissimo alla dinastia, e anch’esso, sulle prime, dubbioso sull’opportunità di un pronunciamiento, avrebbe messo in moto il colpo di forza senza un ordine esplicito del Quirinale che infine, dopo tanti tentennamenti, arrivò.3. Quanto all’ipotesi che Mussolini, nella notte tra il 24 e il 25 luglio, avesse voluto, scientemente, decretate la sua «eutanasia politica», questa versione ci appare davvero priva di fondamento. Certo, il Duce lasciò fare prima, durante e dopo la riunione del Gran Consiglio, tanto da indurre Ivanoe Bonomi a scrivere nel suo diario che egli aveva offerto, in una maldestra imitazione di Giulio Cesare, il suo petto indifeso al pugnale dei nuovi Bruto e Cassio. Ieri, come oggi questa interpretazione, tuttavia, non coglie nel segno. In realtà la mancata reazione dell’uomo dell’ottobre 1922 si basava su altri fattori, In primo luogo, l’assoluto scetticismo per le capacità di manovra dei suoi compagni di strada, divisi da antichi e mai rimarginati rancori e in contrasto sulla strada da imboccare per uscire, indenni, dalla crisi di regime. Poi, la convinzione, una volta che essi avessero valicato lo steccato, di poterli riportare con un semplice fischio e qualche colpo di bastone a belare nel gregge.
C’è però da supporre che la mancata resilienza del Duce facesse parte di una manovra più complessa e ambiziosa. Come ha tentato di dimostrare il volume mio e di Emilio Gin (Le Potenze dell’Asse e l’Unione Sovietica, 1939-1945, Rubbettino Editore), dalla fine del 1941, il principale obiettivo di Mussolini fu di persuadere il Führer a firmare una pace di compromesso con la Russia, per spostare la massa d’urto della Wehrmacht sul fronte mediterraneo e africano. A tale proposta, che trovava convinti sostenitori anche nelle gerarchie naziste, Hitler oppose sempre un fermo rifiuto, fino ai convegni di Klessheim e di Feltre (7-10 aprile e 19 luglio 1943).
Arrivato a questo punto, Mussolini cercò di sbloccare la situazione con una mossa che proprio perché tanto arrischiata poteva essere, però, persuasiva. Sorretto dalla certezza che, sfiduciato dal Gran Consiglio, Vittorio Emanuele, legato a lui, nel bene e nel male, dal ventennale connubio tra monarchia e fascismo, lo avrebbe immediatamente reinsediato alla guida del governo, egli sarebbe stato in grado di trattare da una posizione di forza con il Cancelliere del Reich. Il Duce, infatti, avrebbe potuto sostenere con Hitler che nel futuro, venendo a mancare un massiccio aiuto militare tedesco che solo l’armistizio con Mosca poteva assicurare, un nuovo tentativo di defenestrarlo sarebbe andato sicuramente a buon fine. In questo caso, dopo la sua caduta, l’Italia si sarebbe ineluttabilmente sganciata dall’alleanza con il Tripartito, con gravi conseguenze sul bastione meridionale e balcanico della «Fortezza Europa» che comportavano la possibilità dell’occupazione angloamericana degli aerodromi del settentrione della Penisola da cui intensificare la guerra aerea al territorio austriaco e alla Germania meridionale.
Detto tutto ciò, è doveroso ricordare, insieme a Paolo Mieli, cui si deve una limpida recensione di “25 luglio 1943″ apparsa sul «Corriere” dell’8 aprile, che il saggio di Gentile (informatissimo almeno per la documentazione italiana di carattere memorialistico) è un’opera importante che resterà come un reference book insostituibile per studiosi e cultori di storia. Quest’opera testimonia, però, che negli intricati labirinti del 25 luglio è facile smarrirsi, perché il filo d’Arianna che potrebbe consentirci di trovare il cammino è stato, spesso, reso invisibile dalla cortina fumogena stesa dai tanti protagonisti e comprimari di quella giornata. D’altra parte, la certezza di «attingere al vero», come ripeteva Benedetto Croce nei suoi ultimi anni, è espressione da estromettere dal lessico storiografico. Il lavoro dell’analista del passato è solo un faticoso e approssimativo avvicinarsi alla realtà dei fatti che non si ottiene, comunque, rottamando le precedenti interpretazioni ma piuttosto giustapponendo le nuove a quelle che le hanno precedute. Primo dovere dello storico è, infatti, l’umiltà, perché, in fondo, come ha scritto un celebre romanziere statunitense: «La verità non esiste, esistono solo delle storie».
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