Narciso in frantumi (Insulaeuropea.eu)

di Luigi Cimmino, del 8 Luglio 2023

Luigi Cimmino

Narciso in frantumi

L’umano e il suo bisogno di una seconda identità

In un bell’articolo del 19 Aprile 2020 su Il Foglio, dal titolo Il virus e l’uomo nero, Sergio Belardinelli, recluso in casa per il coronavirus (mentre scrivo, a novembre del ‘22, se lo è preso) recupera mentalmente le sue paure infantili; paure che, in forme differenti, simbolicamente diverse, sembrano anticipare le paure dell’essere umano come tale. Wo es ist – scriveva Freud – muss Ich sein, “dove è l’“es” (l’ignoto mare dell’inconscio) devo esserci io!”; compito del soggetto sarebbe quello di occupare lo spazio di sé che non domina. E si potrebbe pensare che anche Belardinelli richiami con un articolo i suoi fantasmi infantili per poterli ora dominare. Ma per la lettura del testo e per la conoscenza di chi lo ha scritto, so bene che per l’Autore quello spazio non può essere mai del tutto occupato. Questo continua a rimanere in gran parte vuoto, e minaccioso, non c’è solo un rimosso da conquistare. «Allora temevamo le soffitte, le cantine, i sottoscala – scrive Sergio -, convinti che vi abitasse l’uomo nero. Per farci coraggio, vi entravamo fischiettando o parlando da soli ad alta voce. Era una paura senza oggetto; ci si appiccicava addosso in modo quasi paralizzante e scompariva soltanto una volta usciti dalla penombra di quei luoghi inquietanti».

Una delle paure archetipiche è appunto quella dell’”uomo nero”. Ma perché la creatura che ci terrorizza da bambini è nera? Non certo perché il nero è il colore della cosa che si staglia su uno sfondo luminoso e la rende visibile; l’uomo nero abita il buio e nel buio è totalmente indeterminato, sappiamo che c’è anche se non lo vediamo: questo il busillis che grava anche sull’adulto. Non è un caso che l’etimo del suo corrispettivo inglese, the boogeyman, preceda per i vocabolari deputati ogni tentativo di fissarne l’origine. La paura del boogeyman si perde nella notte dei tempi; espressione di una notte originaria, lontana eppure incombente.

Sembra facile capire come mai il buio, la notte, ci intimorisca da bambini. Nell’ombra fitta il mondo non è più gestibile e percorribile, mentre da adulti può diventare la sfera ovattata che isola e consola. Fatto è che non è solo questa l’origine del timore; l’uomo nero non è solo l’emblema di uno spazio ignoto, è molto più simbolo di un’oscurità attiva e onnipotente, l’epitome di quanto può far male, dilaniare. Siamo portati a pensare che da adulti si attutiscano le sorde angosce che abbiamo da bambini, ma potrebbe essere anche il contrario – lo intuisce Stephen King nei suoi horror migliori. Può essere che l’età adulta, protetta da tante narrazioni (da una sorta di continua  reverie mentale), rimuova le paure di uno sguardo puro e indifeso sull’esistenza.

Per tanta ricerca psicologica molte delle figure terrifiche dell’immaginario infantile sono anticipazione, ancora indeterminata, della paura della morte, la paura per eccellenza “senza oggetto”. Non so fino a che punto sia così, a quell’età ciò che minaccia deve essere determinato. Forse è solo più tardi – sembra che si cominci verso i sei anni – che ci si rende consapevoli della paura dell’annullamento: io ho paura della morte anche se questa dovesse avvenire senza cause, se dovessi all’improvviso sparire per mera contingenza. E non è certo questa – pace Emanuele Severino – una paura del nulla come paura della mia inesistenza; non ho infatti certo il terrore di non essere esistito cento anni fa. Senza tempo e divenire – il non essere esistiti, l’esistere e il diventare, per quanti dubbi possa generare il passaggio, inesistenti – non c’è spazio per la paura. Questa ha di solito bisogno che qualcosa accada nostro malgrado e nell’infanzia ci deve essere qualcos’altro che la faccia accadere.

Poniamo comunque che l’uomo nero anticipi davvero la “comare secca” della maturità.  Nel suo articolo Belardinelli aggiunge però una seconda paura, molto diversa dalla prima, apparentemente assai meno temibile. «Avevamo anche paura – si legge – che il compagno di giochi ci chiedesse di andare in bicicletta senza mani come sapeva fare lui: una figuraccia che avrebbe distrutto la nostra reputazione, trasformando in un incubo la persistente paura di lasciare il manubrio. Oggi non saprei dire quale di queste due paure fosse più forte. Sta di fatto che già allora era chiara la loro differenza: la prima, nella sua assoluta indeterminatezza, schiudeva il lato oscuro della vita, insieme a una sorta di impalpabile, segreta fiducia che col tempo sarebbe passata; la seconda, per quanto assillante, aveva invece il carattere realistico della sfida».

Ma è possibile – questo il punto – che la paura di competere sia tanto forte, in un bambino, quanto quella che anticipa la minacciosa indeterminatezza? Perché Sergio Belardinelli le mette assieme, perché fa di entrambe idee archetipiche? Ebbene, tema di fondo di quanto segue, sarà proprio la figura della competizione; il fatto che in questa, e nei pericoli che la circondano, gli esseri umani manifestino spesso il bisogno di una seconda identità, vale a dire di una identità che si aggiunge e cerca di irrobustire la banale e certissima convinzione per cui ciascuno di noi è lo stesso individuo numerico dalla nascita alla morte. Meglio, ma non voglio complicare troppo la cosa anticipatamente, come l’identità che cerchiamo di costruire biograficamente, la nostra seconda inevitabile identità, abbia a volte bisogno di un sostegno esterno. Vedremo anche in che modo tale seconda identità, come nell’articolo, sia misteriosamente connessa al timore di perdere la prima. E dico “misteriosamente” perché, anche se cercherò di dare indicazioni sulle ragioni che ci spingono a essere autenticamente noi stessi nel confronto, il nesso rimane enigmatico. Quasi che il bisogno di affermarmi tradisca in qualche modo l’oscuro timore, sempre al margine della coscienza, che l’ovvia consapevolezza di essere me stesso sia in realtà molto, molto più labile di quanto credo.

Il fascino dell’articolo da cui sono partito sta proprio nel presentare assieme due situazioni così diverse, in realtà intimamente connesse e il proposito di questo testo è quello di individuare la struttura antropologica che ha immanente il bisogno di una seconda identità e della sua connessione con la prima: la paura dell’indeterminatezza con la paura ben determinata del confronto. Struttura che, se tale, per quanto si articoli e declini storicamente in una indefinita varietà di modi, sarebbe formalmente la medesima tanto nell’essere umano occidentale (quale che sia il confine di questo “occidente”) quanto negli antichi clan vichinghi, o a partire dall’homo sapiens. Una pretesa del genere potrà sembrare decisamente eccessiva e presuntuosa, anche perché i miei pochi esempi riguarderanno per lo più la contemporaneità. In realtà, come si vedrà, l’obiettivo che mi propongo è spiegare meglio un uovo di Colombo, anche se si tratterà, come nel (falso) aneddoto sul grande navigatore, di farlo stare in piedi.

Per anticiparlo in sintesi, il punto di fondo è il seguente. L’essere umano – se prescindiamo dai casi di grave malattia o da quelli in cui è costretto per indigenza solo a sopravvivere – è essenzialmente un essere normativo. Ciascuno di noi è impegnato costantemente in pratiche, dalle più semplici alle più complesse, che possono essere svolte correttamente o scorrettamente; come dire che ogni pratica implica la possibilità di essere oggettivamente (allorché corretta) attuata. E come ogni pratica ha in sé una sua attuazione obiettiva, così l’individuo che la compie può o meno percepirsi realizzato in tale oggettività: questa la natura – come vedremo essenzialmente narrativa, biografica – della seconda identità umana. Allo stesso tempo le pratiche umane sono soggette a varie vicissitudini, dal loro fallimento in prima persona, alla pressione sociale, al bisogno di riconoscimento, e a ulteriori difficoltà esistenziali che riassumeremo. Appunto queste possibili e ubique défaillance generano spesso il bisogno di tutelare il proprio valore, il “valere” nelle pratiche in questione, attraverso la reificazione di entità che starebbero alle spalle dell’individuo e che ne garantiscono, di là da quanto si riesce in prima persona ad attuare, la consistenza oggettiva. L’identità nazionale, politica, di lingua, di cultura, ma anche degli appartenenti a un club ecc., da ambienti spontanei in cui ci si trova a proprio agio e che non mettono in questione altre culture e modi di vita, possono diventare vere e proprie ipostasi mitiche che giustificano e proteggono l’individuo; situandosi, per così dire, alle sue spalle. La naturale e invitabile ricerca umana di validità, di un livello in cui farsi più reali, si trasforma così in una identità già realizzata che spesso, con conseguenze tragiche, tradisce la sua falsa origine cercando di imporsi con la forza, divenendo autoritaria [Stenner 2005]. Va da sé che il passaggio dalla prima situazione alla seconda ammette gradi intermedi, volta a volta da interpretare.

Se questo è il punto di fondo che cercherò di svolgere e approfondire perché, ci si può chiedere, alludere a Narciso? Fatto è che i prodotti della “macchina mitologica” (vedi Jesi 2001] sono fatti per generare interpretazioni, e anche quello del bel cacciatore potrebbe essere letto non solo come epitome di uno smisurato egotismo e amore di sé,  ma come desiderio minimale che anzitutto tenta di individuare solo il proprio “io”, per poi poterlo ammirare, e l’idea mitica potrebbe essere quella per cui, proprio perché non si afferra, Narciso tenta in tutti i modi di farsi ammirare, demandando agli altri il riconoscimento della propria agognata bellezza. La scena descritta dal mitema rappresenterebbe il fallimento originario di un essere che, subìto lo scacco del punto di partenza, cerca altrimenti la propria identità. Una identità in cui, questo il punto da chiarire, essere il medesimo ed essere bello (valere, riuscire ed essere apprezzati per questo) sono tutt’uno.

Nella versione di Ovidio si dice infatti che Narciso avrebbe raggiunto la vecchiaia “se non avesse conosciuto sé stesso”, e il suo destino è deciso quando tenta di cogliersi in un aspetto, in una immagine ferma e isolata dalla vita in divenire, in continua costruzione. Come se, imitando Narciso, pretendessi di afferrare in un attimo la realtà del mio io – anche se sembra debba essere possibile –, dove la traballante prestazione di una a sua volta mitica autocoscienza, si conclude nello stringere una fantomatica immagine che si dissolve in acqua o aria. Come se ora, istantaneamente, tentassi di comprendermi ed essere tutto presente a me stesso in un frammento del mio pensiero. Sebbene: cos’è altro la mia vita se non un insieme di attimi frammentari volta a volta esistenti in successione? Da qui – dalla necessità che l’individuo sia sé stesso in ciascun istante e dalla impossibilità che tale quid permanente si manifesti – la normatività e la narratività dell’esistenza umana, la necessità di guadagnare aliquo modo una consistenza oggettiva.

Sono convinto che la costruzione della nostra seconda identità vada soggetta a vincoli razionali e morali, oltre che politici. Il tema di quanto segue, di là da una breve indicazione alla fine, è d’altro canto limitato alla accennata struttura, al punto di partenza “antropologico”.

Il primo capitolo è dedicato a uno degli esempi eclatanti di entità in cui spesso i soggetti trovano giustificazione e tutela della loro (seconda) identità: quello di nazione. Un primo paragrafo viene dedicato a Anthony D. Smith, uno fra gli autori che più si sono misurati sulla natura e la funzione del concetto, in un testo che fra l’altro ben sintetizza le diverse posizioni teoriche a riguardo, considerando quelli che a mio avviso sono i limiti della concezione etno-simbolica, quella fatta propria da Smith. Successivamente vengono considerate due proposte antitetiche riguardo all’appartenenza nazionale, quelle di Kwane Appiah e di Francis Fukujama. Mentre per Appiah l’appartenenza nazionale non ha alcuna giustificazione, storica o teorica che sia, Fukujama cerca invece di individuare le ragioni, e anche la possibile funzione positiva dell’appartenenza nazionale. La conclusione sarà che le conclusioni del primo sono “banalmente vere”, vale a dire che, proprio perché sottolineano il carattere illusorio dell’entità nazione, non spiegano il diffuso bisogno di identificazione nazionale, quelle del secondo, che pure cercano di rintracciare le radici dell’esigenza, finiscono con reperirle in una dimensione piuttosto confusa e indeterminata, quella del thymos platonico, vale a dire nella sfera delle emozioni. Più specificamente, le riflessioni di Fukujama non approfondiscono la natura della dimensione emotiva e, soprattutto, non chiariscono le ragioni, quando ci sono, che spingono all’identificazione nazionale. La conclusione del capitolo è quindi che certamente l’idea di nazione è un costrutto, fra l’altro spesso generato da un certo tipo di fallacia (che chiameremo del “generatore prossimo”), ma che a) non è affatto chiaro cosa spinga a formare tale costrutto e, in particolare b) in che senso il bisogno di identificazione nazionale sia uno dei molti modi in cui, in generale, gli individui sono spinti a identificarsi in alcunché.

Il secondo capitolo – indicato come “intermezzo ontologico” – si pone la seguente domanda: posto che gli esseri umani vengano spesso spinti, nei modi più articolati e differenti, a seconda della loro situazione storica e sociale, a identificarsi in qualcosa, cosa ne è della loro identità numerica, la credenza, irrinunciabile, nella permanenza in ciascuno del proprio sé dalla nascita alla morte? E che rapporto c’è fra tale identità ontologica e il bisogno di acquisire un’ulteriore identità? Come si vedrà, anche se in modo estremamente sintetico, la permanenza in ciascuno di noi di qualcosa che lo rende identico nel suo divenire, sebbene presupposto di qualsiasi ulteriore identificazione, è tema estremamente problematico. Il modo in cui gli individui identificano sé stessi, più che consistere nell’individuazione di un elemento permanente, avviene attraverso l’indicazione di una continuità biografica: l’identità cui accediamo sia in prima che in terza persona è un’identità essenzialmente narrativa; lo stesso “io” o “sé” con cui un soggetto si autoriferisce non prende forma a prescindere da tale narrazione: quasi che la narrazione biografica e il suo bisogno di valere sia il modo in cui viene riempita l’ineffabile identità sincronica, il misterioso sé che accompagna tutta una vita.

Il terzo capitolo – mi rendo ben conto, decisamente astratto, e quindi apparentemente distante dall’argomento principale del testo – è comunque inevitabile per fornire una base minimamente solida ai temi e alle conclusioni presentate. Esso riguarda infatti l’ambito in cui si sviluppa la normatività umana: quello dell’intenzionalità, marca del mentale. Questa, quale genere, viene distinta, come già Aristotele distingue (anche se non utilizzando certo tale terminologia) in “credenze” e “intenzioni”. Una digressione sull’argomento si raccomanda soprattutto perché nella vita mentale intenzionale nasce un problema – che è anche il problema di fondo delle teorie etiche – il cui chiarimento contribuisce a confermare e specificare il tema di fondo del testo, appunto il bisogno umano di realizzarsi, alla lettera, in una seconda identità. L’intenzionalità si articola appunto in credenze e intenzioni; con le prime si indica qualsiasi opinione, come tale vera o falsa, con le seconde il contenuto mentale che viene realizzato nelle azioni. Nel sostenere una qualsiasi opinione, intanto la si crede vera in quanto questa è più o meno giustificata: la giustificazione è ciò che appunto spinge a ritenere una opinione vera. Ciò significa però riconoscere che intanto è possibile giustificare, in quanto la giustificazione è correlata alla verità del contenuto sostenuto; come dire che la stessa possibilità di giustificare ha senso nell’ambito di contenuti possibilmente veri. Ma se è così ne deriva che nell’agire – che non è né vero né falso, ma realizzabile o meno – non trova posto la possibilità di provare e sostenere il fine che si intende realizzare, e questo equivarrebbe ad affermare che gli scopi ultimi di un’azione non possono mai, in linea di principio, essere giustificati. Eppure gli esseri umani cercano per quanto possibile di giustificare le proprie azioni, il richiamo al “dovere”, a norme etiche è appunto il segno più eclatante di tale bisogno. Nel capitolo si tenterà di venir fuori dal grattacapo, di sciogliere il busillis. La conclusione – anticipata in una sintesi sin troppo breve – sarà che, sulle orme di Aristotele, appunto per giustificare l’agire, fine ultimo di questo è attuarsi oggettivamente, secondo la struttura normativa dell’umano, e che tale oggettività, per non decadere ad arbitrio, dev’essere (nelle credenze che la riguardano) giustificata. Se è vero che i fini ultimi di un’azione non sono per sé giustificabili, mentre tali sono i mezzi con cui raggiungiamo tali fini (appunto perché possibilmente veri o falsi), l’unico modo di giustificare i fini è renderli a loro volta mezzi di un fine ulteriore, la consistenza oggettiva, che come tale permette la giustificazione.

Nell’ultimo capitolo verranno anzitutto esaminati, in modo estremamente generale, i problemi che assillano la normatività umana, problemi strutturali che in parte dipendono dalla nostra finitezza, in parte derivano dai vincoli imposti dalla vita sociale. L’ultimo paragrafo del capitolo ritorna quindi sul tema principale dove si vedrà come il bisogno di garantire e tutelare, dalle loro tante vicissitudini, le pratiche in cui ciascuno a suo modo si impegna, conduce spesso alla reificazione di identità già costituite, come appunto quella nazionale, che garantiscano la nostra oggettività indipendentemente dalla capacità di realizzarla. In molti casi tale tutela ha risultati positivi e contribuisce sia alla gratificazione degli individui, sia a sostenere il loro contributo alla vita sociale; in altri casi, purtroppo frequenti, tale “identità-alle spalle”, per compensare la sua astrattezza, si fa violenta, reggendosi solo sulla forza e sul dominio da esercitare sugli altri. Sta soprattutto agli individui, ma anche alle istituzioni che stabiliscono e alla politica che le governa, gestire e limitare i danni cui può condurre il bisogno umano di tutelare attraverso ipostasi esterne la loro seconda identità.