Da Il Corriere del Mezzogiorno del 27 maggio
Caro direttore, sul suo giornale Antonio Napoli ricostruisce — con precisione e rigore storico — le trasformazioni nella gestione e controllo del voto di preferenza a sinistra. Un tempo risorsa preziosa del centralismo democratico per la selezione della classe dirigente. Oggi ridotto a terra di conquista dei micronotabili che affollano le liste che brulicano a sostegno dei candidati a sindaco. Mi permetta, però, di dissentire, in amicizia, dalla conclusione. Che tira in ballo — per questo fallimento — «il disimpegno delle classi dirigenti, il rifiuto di interi pezzi di società che, chiusi nelle loro belle case, hanno lasciato andare al collasso la città». Intendiamoci. Non che in questa diagnosi non ci sia una — cospicua — parte di verità. C’è, però, anche il rischio di buttarla, come si dice, in cavalleria. Senza, cioè, individuare cause più specifiche della situazione disastrosa in cui siamo precipitati.
Cause cui, almeno in qualche misura, si potrebbe provare a porre rimedio. Ed è da qui che vorrei partire per provare a vedere, in fondo al tunnel, una luce che non sia soltanto il semaforo del tunnel successivo.
Per l’analisi politologica — e lasciando, dunque, per un momento da parte il retroterra sociale e le sue colpe — la crisi che Antonio Napoli individua risulta dal combinato disposto di tre fattori. Il primo non ha bisogno — purtroppo — di precisazioni, ed è la crisi del partito politico come organismo collegiale, coeso e piramidale. Su questo tema — sotto gli occhi di tutti — c’è ormai una valanga di letteratura, da ultimo il libro-testamento di Peter Mair, il più autorevole dei comparativisti europei, «Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti», uscito di recente in Italia per i tipi di Rubbettino. È un fenomeno generalizzato a tutte le democrazie occidentali. In Italia, ne stiamo pagando un prezzo particolarmente salato perché abbiamo capito in ritardo questo trend, e lo abbiamo combattuto poco e male.
Qui si innesta il secondo fattore, la legge elettorale locale. Lo confesso, continuo a essere sbigottito per la mancanza di attenzione che il dibattito pubblico dedica all’elemento più plateale — e letale — della degenerazione micronotabiliare del nostro sistema politico. Come tutti sanno — ma tutti fanno finta di dimenticare — il sistema della preferenza unica convive con quello dell’elezione diretta del sindaco. Facendo — in modo aberrante — convergere due logiche completamente diverse di comportamento di voto: voto di scambio e voto di opinione. Agli inizi, all’era della cosiddetta primavera dei sindaci, l’irrompere dei primi cittadini sulla scena nazionale fu dovuto al netto predominio dell’opinione sullo scambio, dei macroleader sui micronotabili. Da Bassolino a Rutelli, da Cacciari a De Luca, i sindaci vissero una stagione di veri e propri plenipotenziari. Grazie al rapporto diretto con l’opinione pubblica cittadina ma anche, al tempo stesso, alla debolezza del ceto consiliare travolto dalla crisi di Tangentopoli. Fu, però, una breve stagione.
Mi consenta una citazione autobiografica. All’indomani della trionfale rielezione di Bassolino, nel ’97, con oltre il 70% dei voti, il principale giornale cittadino riportò, in cronaca, la lamentela di un neo-eletto consigliere comunale per il fatto che un professore universitario incontrasse, ripetutamente, il sindaco per decidere delle nomine degli assessori. Quel consigliere aveva torto sul fatto che Bassolino potesse essere influenzato, in quelle scelte, da chicchessia. Ma ricordo la mia sorpresa, quasi divertita, nel leggere che si affacciasse un qualche contropotere a contestare l’assoluta responsabilità individuale che il sindaco aveva, fino ad allora, esercitato e rivendicato. Del tutto legittimamente, secondo l’investitura diretta prevista dalla normativa vigente. E, a giudicare dal risultato elettorale, anche in modo molto soddisfacente.
Bei tempi, penserà qualcuno. O, invece, tempi molto perigliosi, commenterebbe qualche professorone che oggi paventa che anche per il premier si possa, a valle del referendum, marciare in questa direzione. Mi astengo, qui, da questa polemica. La domanda che, in questa sede, ci interessa è come mai si sia cominciato a invertire, a un certo punto, l’equilibrio tra i due poteri, macroleader e micronotabili. Un’inversione di cui quella lamentela era un primo, timido segnale. Ma che, negli anni successivi avrebbe letteralmente falcidiato il peso — e l’autorità — di tanti sindaci.
La risposta sta nel declino inesorabile del voto di opinione. Quello, cioè, basato in primo luogo sulla partecipazione, discussione, informazione della cittadinanza attiva. E che era il terreno di cultura — naturale e ottimale — della ascesa vittoriosa dei sindaci. La cifra più spietata del fenomeno sta nel crollo della vendita — e circolazione dei giornali. Ridotti, oggi, a un terzo — a volte anche di meno — delle copie di vent’anni fa. Una waterloo dell’homo sapiens — per dirla alla Sartori — il cui prezzo è, letteralmente, incalcolabile. Certo, ci sono altri canali a cercare di compensare questa emorragia di senso critico, in primis Internet su cui sono riposte molte speranze di rinascita. Ma, per il momento, la rete funziona ancora principalmente come amplificatore di tweet, o foto e pettegolezzi su facebook. Un mix di follower distratti e polemiche da stracortile, che certo non possono nutrire quella consapevolezza dei problemi e l’attitudine pluralista a discuterli che sono, da sempre, il sale dell’opinione pubblica.
Come Antonio Napoli lascia intravedere nel suo raffronto con Milano, accanto ai circuiti mediatici, esistono altre dinamiche favorevoli allo sviluppo di quella partecipazione informata che può mettere gli elettori al riparo dall’assalto dei micronotabili. E qui, non c’è dubbio, si stagliano — ahinoi — le differenze tra la società civile meneghina e quella partenopea. Ma, per rimontare quel distacco, occorrerebbero energie e risorse che proprio non si intravvedono all’orizzonte. All’orizzonte, invece, ci potrebbe essere una nuova legge elettorale che tagli alla radice il bubbone del voto di preferenza unico nelle elezioni locali. E magari, chissà, a voler essere pervicacemente ottimisti, anche un leader che riesca a infondere l’entusiasmo e la fiducia indispensabili perché si compia nuovamente il miracolo di una città che vota con la testa, invece che con la pancia e il portafoglio. Penso anche io, come in tanti, guardando ai candidati in lizza, che abbiamo saltato un turno. Ma, dentro di me, resto convinto che torneranno primavere.
di Mauro Calise
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