Mi pare davvero un’exceptio quella che personalità, alla guida di istituzioni della Repubblica, si impegnino in opere di ricostruzione storica, ancorché con le migliori intenzioni. Ministro in carica, con un riconosciuto bagaglio politico e profilo morale, Nello Musumeci – indiscussa figura di governatore galantuomo in Sicilia – ha voluto saltare il limen che consiglierebbe di osservare questa regola aurea; ha snobbato i “consilia” in questa direzione e non ha temuto di mettere a rischio la propria biografia politica e intellettuale “di destra”; appartenenza che, nel trattare di Ventennio fascista e di Seconda delle due guerre globali che hanno insanguinato il Novecento, richiede cento cautele: una prudenza a cui l’autore ha voluto disobbedire trascinando nell’avventura anche il collega Gennaro Sangiuliano, che gli ha sottoscritto una inappuntabile e molto professionale prefazione.
Una ricerca storica senza nostalgismi e antiamericanismi
Ma, tant’è. Vediamo: cosa può avere indotto un uomo di governo titolare di una delega tanto impegnativa – la Protezione civile – ad avventurarsi su territori tanto minati? Solo un’analisi superficiale o interessata può assegnare “La Sicilia bombardata” (Rubbettino) di Musumeci al registro revisionista: sostenere che l’autore “riscrive con la penna nera la storia dello sbarco del ‘43” (Marco Patucchi, Repubblica, 9 agosto) è risposta non inaspettata dalla maggiore delle due “sorelle Agnelle” dell’informazione italiana, ma d’ordinanza. Un articolo molto estivo-riempitivo nel quale non mancano riconoscimenti all’autore del volume. Purtroppo l’obbligo di coerenza con la linea editoriale anti-Meloni, porta il pezzo a conclusioni “contras” poco convincenti persino per chi le ha firmate, il quale, invece di affidarsi alla struttura storiografica e ai contenuti dello studio – come é tentato di fare – finisce per cedere all’uso politico del “colore” di chi lo ha scritto. Eppure Musumeci, pur non essendo uno storico di professione, ha lavorato come se lo fosse. È questo il risultato complessivo della sua ricerca, compilata con metodo e rigore e per ciò dotata di fonti di prima mano, di un serio apparato bibliografico. Il che la rende difficilmente attaccabile nei contenuti. Enigma: perché Musumeci ha voluto scrivere un volume di questo tipo, nel bel mezzo di un impegno istituzionale che gli assorbe energie non da poco? Bella domanda. Prendo il toro per le corna: certo non per farne un’opera che vellichi istinti e refrain nostalgici. Intanto, perché lo esclude l’autore con dichiarazioni di chiusura. Musumeci non vuole affatto “rivedere il giudizio sul significato generale della guerra stessa e sulle responsabilità di quanti l’hanno generata” (p. 163); passatisti e negazionisti sono avvertiti. E anche le sempre allertate sentinelle “antifa”. Lo stesso vale per inveterati pacifisti e ostinati anti-americanisti: “qui non si mette in discussione il ruolo avuto in Italia dalle due Armate Alleate, agli ordini di Londra e Washington, e il conseguente epilogo con il ripristino della democrazia due Armate Alleate” (p.159). Ecco perché il quotidiano diretto da Molinari – che tira in ballo addirittura chi “era negli uffici della Casa Bianca durante il recente incontro tra Giorgia Meloni e Joe Biden” – deraglia dai binari di una valutazione, anche severa, ma di merito, in un sommario giudizio politico contra personam. E certo, la guerra é guerra: contro il governo, intendo.
La mancata difesa antiaerea della popolazione
A smentire l’intento revisionista, invece, sono diffuse e visibili in tutto il libro, tante considerazioni, a volte temperate, talvolta durissime e abrasive, ma tutte concorrenti a una critica netta nei confronti del regime fascista. L’azzardo bellicista mussoliniano è testimoniato – nel commento di Musumeci – in primis dalla rivelazione che “il primo ‘regolamento’ per la protezione antiaerea della popolazione civile sia stato approvato nel marzo del 1934, non si riesce a capire come per anni i vertici italiani abbiano potuto eludere il problema della difesa e della protezione del territorio, per poi essere costretti a porvi tardivo rimedio”. Tanto che l’autore mette in evidenza “le invidie e le gelosie dei dicasteri e dei vertici delle forze armate militarizzate, impegnati a parole nello sforzo comune della difesa della patria, ma, a fatti e come sempre, protesi solo a salvaguardare la gestione della propria fetta di potere”. (p. 35).
Come dire: alla responsabilità della “conta delle vittime civili”, la quale “lambisce la paurosa cifra di diecimila morti”, è chiamato, insieme alle potenze alleate anglo-americane che le bombe le sganciavano, anche il regime, il quale, oltre a fare andare i treni in orario, avrebbe dovuto provvedere alle ben più vitali opere di difesa civile.
Il divorzio tra il regime e il popolo
Le pagine non eludono neppure i gravi disagi della popolazione, in particolare della povera gente, nel soddisfare il primo dei bisogni, quello di sfamarsi. Così la decisione “di affidare al Partito il compito di organizzare e gestire, durante la guerra, i servizi annonari, il controllo dei prezzi e dei consumi” è giudicata da Musumeci, senza perifrasi “una scelta infelice”. (p.38). E che intenzionalità agiografica sarebbe quella che illumina il crescente disfacimento della fabbrica del consenso, del divorzio progressivo tra il popolo e regime? Una “pericolosa incrinatura tra il Partito fascista e il popolo”, il fallimento della “lotta contro l’accaparramento e il mercato nero, condotta dallo Stato e dagli organi del Pnf”, del “malessere nelle fasce popolari e nel sottoproletariato”, le “agitazioni promosse da gruppi di donne”, il dissenso della “piccola e media borghesia a reddito fisso” in crisi a causa della “caduta del potere d’acquisto” e della “penuria del mercato alimentare, che già nel secondo semestre dell’anno si rivela insufficiente, mentre il sistema distributivo appare fallimentare”: sono tinte fosche che l’autore non risparmia nella sua rievocazione; aggiungi il malcontento crescente soprattutto nel mondo agricolo, anche per l’inefficienza della “politica degli ammassi di grano, che grava in gran parte sui piccoli produttori”. E così anche gli scioperi degli operai causati – scrive Musumeci – da “ragioni di natura economica, determinate certo dai bombardamenti, ma esasperati da una serie di errori di valutazione commessi dalle autorità di governo (centrali e periferiche)”: l’apologetica è davvero lontana dalla teleologia del libro. Illuminante, in proposito, è lo “sciopero al cantiere navale di Palermo, del 7 febbraio del ’43” il quale “è il primo in Italia” e a cui “partecipano circa 1.300 operai ed è, dopo quello della Fiat, il più massiccio di tutta la stagione” (p. 65).
Nessun revisionismo: le efferatezze delle truppe hitleriane
Ho qualche conoscenza di lavori revisionisti, soprattutto di quelli composti nell’immediato dopoguerra: uno dei filoni più battuti é quello di svicolare dalle nefandezze di cui si macchiarono gli (ex) alleati tedeschi. Non sono poche, invece, le cronache della “Sicilia bombardata”, che riportano, senza veli, le efferatezze perpetrate dalle truppe hitleriane. Tra queste, l’autore si sofferma sulla “strage di Castiglione”, nel catanese, come rappresaglia su cittadini innocenti per un attacco subìto – caddero tre soldati tedeschi – del quale gli abitanti della città furono ritenuti responsabili: “prima di reclutare i civili per dare corso alla progettata ‘vendetta’ – scrive Musumeci – entrando in paese i tedeschi cominciano a sparare contro inermi cittadini che stanno sull’uscio di casa: è una strage! Sedici inermi castiglionesi rimangono uccisi all’istante, mentre una trentina di tedeschi avanza lungo l’abitato prelevando circa 200 ostaggi, che rinchiudono in un ovile. Solo la faticosa mediazione dell’arciprete e della madre superiora delle suore riesce a convincere l’ufficiale tedesco a recedere dal tragico proposito” che avrebbe aggiunto strage a strage (p. 108).
Al di là della terminologia – che va contestualizzata, sia nel periodo storico, sia nel glossario degli stessi documenti militari, persino odierni: “nemici, “invasori” e similia – i fatti riportati non omettono neppure “lo stato d’animo della maggioranza dei cittadini isolani, alla notizia dell’arrivo delle truppe angloamericane.
In molti centri abitati, il loro ingresso viene salutato con scene di esultanza, di gioia e persino di ovazioni” (p.115). Ora, non saprei se queste descrizioni siano il quadro o la cornice del libro; se tali “scene”, così dipinte, siano particolari o dettagli. Come spesso accade al critico d’arte, alcune interpretazioni si aggiungono, si intrecciano, innovano o si diversificano rispetto a quelle del creatore di un’opera. Musumeci – questo mi pare un dato neutrale – ha il merito di avere consegnato alla ricerca storica, uno studio che mancava, dotato di narrazione meticolosa dei bombardamenti alleati, città per città, talvolta paese per paese: è una cronaca non di semplice divulgazione, ma con dignità di historia, naturalmente limitata alla Sicilia; che tuttavia, con lo sbarco di 80 anni fa, recitò un ruolo di primo piano, come teatro di guerra europeo.
Orrori e stupri: pagine parallele col cinema neorealista
Il chronichon di Musumeci è verista, “spietato” nel riportare un vissuto popolare – quello che toccò in sorte a tanta gente, ai suoi stessi genitori ai quali lo scritto è dedicato – di terrore e distruzione; e di privazioni, di fame, di ferite, di morte; di vita promiscua e assenza d’igiene negli improvvisati rifugi; di fughe, sfollamenti e arrangiatissimi “ospedali”; di animalità, di crudeltà, di “demoni” dostoevskjani con o senza divisa. Sono gli orrori della guerra; di tutte le guerre. Ognuna ha molto di comune con qualunque conflitto o reca un additivo aberrante che prima non c’era. Si fa notare, nelle pagine di Musumeci, un eterno ritorno di eventi e accadimenti che si ripetono; che abbiamo letto – vedasi il romanzo, che precede l’omonimo film, “La Ciociara” (1957) di Alberto Moravia, (che fu nipote per parte di madre del segretario del Msi, Augusto de Marsanich) – e che, soprattutto, ci ha offerto, con straordinaria efficacia e pathos, il nostro cinema neorealista: le “immagini” mentali che sprigionano le pagine della “Sicilia bombardata” richiamano molto i fotogrammi che hanno caratterizzato e reso inimitabile il cinema italiano nel mondo. Lo storytelling di Musumeci é molto vicino alle immagini della “Ciociara” di Vittorio De Sica, interpretato da Sofia Loren o di “Roma città aperta” di Roberto Rossellini con Anna Magnani. O anche all’emozione lancinante suscitata da pensieri e parole di Louis Ferdinand Celine nel suo “Viaggio al termine della notte: “Uno é vergine dell’Orrore, come lo é della voluttà…Chi avrebbe potuto prevedere prima d’entrare davvero in una guerra, tutto quello che conteneva la sporca anima eroica e fannullona degli uomini ? Adesso ero preso in questa fuga di massa, verso l’assassinio di gruppo, verso il fuoco”: é lo stesso campionario di atrocità che ritrovate, tutte, nel reportage della “Sicilia bombardata”. E tra questi lo stupro delle donne: nel libro c’é molto del pugno nello stomaco che si riceve guardando le sequenze della violenza commessa dai soldati marocchini – i famigerati goumiers arruolati nell’esercito alleato francese – di cui è vittima Rosetta (Eleonora Brown) nella “Ciociara”. “Una pagina scomoda e perciò per troppo tempo rimasta all’oscuro, perché scritta da truppe aggregate alle Forze armate angloamericane” (p. 141), osserva Musumeci.
“Considerandole bottino di guerra i ‘marocchini’ – si legge nel libro – si sentono autorizzati a catturarle e, nel portarle via, si divertono a sghignazzare, apostrofandole volgarmente con un lessico triviale”. Numerosi stupri “vengono consumati soprattutto in casolari campestri” a danno di “donne scovate malgrado le precauzioni e la prudenza nel nascondersi”. Il fenomeno é così diffuso che, in alcuni casi, i responsabili vengono passati per le armi su ordine dei superiori, preoccupati per i possibili contraccolpi causati dal dilagare delle violenze. In altri, provvede la popolazione locale a farsi giustizia da sé, come a Capizzi, tra Messina ed Enna.
10 mila vittime delle bombe “alleate”: pagine agghiaccianti
Ma é soprattutto la contabilità delle vittime dei bombardamenti alleati e soprattutto la sua finalità che denuncia l’autore. Da Catania a Palermo, da Messina, a Trapani, ad Agrigento a Siracusa; fino ai 180 bombardieri che colpirono Marsala facendo 400 vittime in un solo giorno; laddove affiorano tra i primi cadaveri, “le mani di alcuni bambini, e ce ne erano tanti, del vicino asilo, abbracciati tra di loro, alcuni con un cucchiaino in mano ed altri che tenevano una mezza pagnotta, già freddi, con la paura impressa nei loro volti”: é una delle pagine più agghiaccianti del libro (p. 81). Ma non é certo l’unico caso: in realtà nessuna provincia siciliana venne risparmiata. Per arrivare a 10 mila vittime civili, ce ne sono voluti di ordigni. Morti scordati perché vittime dei “vincitori”. “Dimenticati” anche da parte delle comunità locali; non raramente anche dai parenti, dalle famiglie: la gente non vuole ricordare. Perché? “Una spiegazione la si può tentare – secondo Musumeci – dal punto di vista psicologico: la bomba che cade dal cielo è separata dal gesto che l’ha sganciata, il colpevole non si vede in faccia…il bombardamento diventa – per chi l’ha subito – una sorta di calamità” (p. 161). É così, con delle eccezioni: a Taormina le vittime dei bombardamenti alleati sono ricordate ogni anno con una cerimonia. Fu istituita, nel 1994, da Mario Bolognari, noto antropologo, sindaco di sinistra, che fece apporre pure una lapide commemorativa il 9 luglio del 1995, in occasione del 53^ anniversario della strage in cui morirono 93 persone in un solo giorno: erano in buona parte donne e bambini. Da allora, la rievocazione nella capitale del turismo siciliano, si fa ogni anno, insieme alla festa di San Pancrazio, patrono della città, indifferente alla composizione delle amministrazioni: una positiva singolarità. Quanto alla spiegazione dell’oblio diffuso, il meccanismo psicologico individuato dall’autore in chi ha subìto, non é lontano dalla realtà. Ma, gli fa da parallelo il paradigma mentale di chi colpisce. “La nuova conduzione impersonale della guerra, in base alla quale uccidere e ferire diventavano conseguenze remote del premere un pulsante o del muovere una leva” e quindi “rendeva invisibili le sue vittime”, ha scritto Eric J. Hosbwam, uno dei più grandi storici del Novecento, nel suo “Il Secolo breve” (Rizzoli, Milano, 1997). Laggiù “al suolo sotto i bombardieri, non c’erano persone che stavano per essere bruciate o maciullate, ma obiettivi”. pPertanto, si poteva “assai più facilmente sganciare tonnellate di esplosivo su Londra o su Berlino, o bombe atomiche su Nagasaki e Hiroshima”. Così, secondo lo studioso, di formazione marxista, le “più grandi crudeltà del nostro secolo sono state le crudeltà impersonali delle decisioni prese da lontano, nella routine del sistema operativo, soprattutto quando potevano essere giustificate come necessità operative sia pure incresciose”.
La questione dei crimini di guerra
Il che dà una risposta indiretta anche al quesito di Musumeci sull’”utilità” della “carneficina della popolazione siciliana”: la si può integrare con la risposta negativa che lo stesso Musumeci si dà, pur confermando “la tesi che tedeschi e angloamericani si sono ugualmente resi colpevoli di crimini contro la popolazione”.
É giusto definire “crimini” questi episodi e la loro “strategia”? Certamente sì, sul piano morale. Sul piano giuridico, non sarebbe stato possibile qualificare “crimini di guerra”, né “crimini contro l’umanità”, la “species” dei bombardamenti di cui, peraltro, anche l’Italia si rese responsabile (vedasi le “bombe” al gas lanciate dai nostra Aviazione in Africa; o quelle gettate su Tel Aviv e su altre città della Palestina). La questione si é posta, senza alcun esito concreto, persino in ordine agli “effetti collaterali” – così furono definiti le morti di numerosi civili provocati, insieme a uno scenario esteso di distruzione – dai “bombardamenti umanitari” portati a termine dalla Nato per costringere Slobodan Milošević a ritirarsi dal Kosovo; operazioni a cui partecipò nel 1999 l’Italia allora guidata da Massimo D’Alema.
Comunque, era e resta impensabile, che tali atti potessero essere qualificati “crimini”, da corti e tribunali delle potenze vincitrici: il che dà fondamento all’esergo del libro – una citazione di Arrigo Petacco – “quando la guerra finisce, le bugie dei vinti sono smascherate, quelle dei vincitori diventano storia!”.
Musumeci toglie il velo all’historically correct
Certo, la materia agitata da Musumeci, al di là del suo raggio d’azione, é incandescente e complessa; difficile però concludere, per la maggior parte dei casi, che gli autori dei “crimini” siano stati dei “criminali”: é un apparente ma realistico e significativo paradosso. “La Sicilia bombardata”, negli anni 1940-43, lo fu con particolare veemenza non solo nelle strutture militari ma anche nei centri abitati – una delle questioni che l’indagine fa emergere – per “colpire e fiaccare il morale dei siciliani” e indurla a collaborare con gli occupanti, come sostiene Musumeci? Assolutamente sì. L’Isola fece le spese di una tecnica ordinaria, adottata quasi sempre dagli “occupanti”, ovunque; è sempre così: in tutte le guerre.
Ma Musumeci ha il merito di avere tolto il velo – molto politically correct, si potrebbe dire anche historically correct – che impediva di sapere e di conoscere la verità “integrale” su quanto accaduto in Sicilia 80 anni fa, ad opera degli alleati. Si potrebbe però anche affermare – lo si deve – che i “crimini” perpetrati ai danni dei siciliani non sono dissimili da quelli di cui la storiografia accusa gli italiani nelle terre del proprio “Impero” soprattutto con i gas asfissianti: “…a partire dalla fine di gennaio 1936, i soldati, le donne, i bambini, il bestiame, i fiumi, i laghi, i pascoli, furono di continuo spruzzati con questa pioggia mortale. Per uccidere sistematicamente gli esseri viventi, per avvelenare con certezza le acque e i pascoli, il comando italiano fece passare e ripassare gli aerei. Questo fu il suo principale metodo di guerra.” (Hailè Selassiè alla Società delle Nazioni, il 30 giugno 1936); per vincere in Etiopia si richiedeva, secondo il generale Rodolfo Graziani, la necessità di “distruggere i paesi stessi perché le genti si convincano della ineluttabile necessità di abbandonare questi capi… lo scopo si può raggiungere con l’impiego di tutti i mezzi di distruzione dell’aviazione per giornate e giornate di seguito essenzialmente adoperando gas asfissianti” (Del Boca). Come si vede, le modalità di occupazione si legano con una orribile reciprocità. Resta la necessità di dare una risposta al perché Musumeci abbia dato alle stampe questo libro. Ci provo.
Le ragioni dell’autore: il raffronto con le foibe
L’autore della “Sicilia bombardata”, pur nei panni di studioso, resta un politico. E da politico é stato “mosso” , a mio parere, da tre motivazioni. La prima é quella di partecipare alla costruzione di una memoria e anche di una storia condivisa; rischiando di persona. Lo fa sul terreno che ben conosce che è la “sua” Isola. Sotto questo profilo, la “riscrittura” – io direi meglio, la rilettura – degli avvenimenti di quegli anni sono una pagina di verità storica che si aggiunge a quella negata delle foibe. Con una differenza: le foibe “nascondevano” corpi e ricordi negli abissi, metafora dei precipizi in cui fu gettata insieme ai corpi dei “nemici” e di innocenti, l’umanità dei colpevoli di tanto abietti delitti di massa; lì pochi “sapevano” e pochissimi “parlavano”; la “spietatezza” dei bombardamenti in Sicilia, non era nota nei dettagli – le diecimila vittime civili, fino allo studio di Musumeci non era dato di comune memoria storica, a parte di rapsodici e frammentati resoconti – ma era un vissuto di milioni di siciliani.
Quasi “al termine” – ma non credeteci – di un significativo percorso di vita pubblica, Musumeci ha scelto di consegnare col suo racconto storico un bene immateriale alla sua terra e alla comunità nazionale nella speranza che possa essere più durevole delle proprio “opus” politico; il quale é, per ciò – vale per tutti i politici – sempre transeunte, specie nel ricordo del popolo. É un tentativo di “lasciare” un quid di proprio: forse di consegnare se stesso oltre le frontiere della vicenda politica. La seconda coincide, per così dire, con lo “sguardo del Gattopardo”: Musumeci è stato governatore e resta uomo pubblico attaccato – per alcuni in modo eccessivo – alla propria terra. Nella ricerca c’è molta sentimentalità verso la sua gente; c’è “compassione” – nel suo etimo di soffrire insieme – ai “suoi” siciliani, alla propria comunità di cui fanno parte i vivi e anche i morti. Ma con la pre-comprensione – propria della cultura di destra – dei “limiti” umani del popolo: in particolare del “suo” popolo.
Lo “sguardo del Gattopardo” sui “liberatori”
Ci sono parole del libro – a proposito dell’arrivo dei “liberatori” – vicine al famoso colloquio del Principe di Salina con Aimone Chevalley di Monterzuolo, nel romanzo impareggiabile di Tomasi di Lampedusa. Quel “Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi…da duemilacinquecento anni siamo colonia” ha assonanza con la scrittura amara di Musumeci – citazione di un letterato locale – che sono “giorni in cui in molti intellettuali prevale un senso di smarrimento e di vergogna”: c’è tanta amarezza per un “popolo ritenuto incapace di avere una coscienza nazionale e che obbedisce solo alla logica della contingenza: “a chi mi dà pane gli dico padre”». (p. 117). È l’originale “resistenza”, tutta sicula, alle dominazioni straniere, alle stratificazioni culturali che hanno forgiato questo “carattere” collettivo e che il ministro-studioso ben conosce. E col quale, come tutti i politici che aspirano a intestarsi una “missione”, ha dovuto fare i conti; talvolta facendone le spese.
La verità condivisa e la contestazione” delle mezze verità
La terza – forse l’impulso più forte – è la “reazione” a una verità non vera, o non del tutto vera; carente, incompleta, molto parziale. Qui desidero fare una riflessione che forse dà il senso anche metastorico del libro: nel dopoguerra, nell’analizzare il percorso della seconda o terza generazione della destra italiana, specie a sinistra, si é fatta confusione tra il nostalgismo e la volontà – davvero genuina, quasi sempre – di ribellione a una storia conformista che tutti sapevano non fosse il reale accaduto: è la “rivolta in se”, l’essere “anti”, quella forma originale di “contestazione” del conformismo delle verità uniformi; non verificate o non veridiche – eppure esposte come tavole obbligatorie per tutti – che quella “leva” della “rive droite” rifiutava; non era l’idea di un impossibile ritorno al mussolinismo e nemmeno l’obiettivo di nasconderne gli orrori. Una generazione politica che, negli anni, ha imparato e trasmesso saperi e tecniche a quelle successive; ha affinato e fatto affinare il lessico e le metodologie intellettuali; ha letto, analizzato, scritto alla pari con l’”adversam partem”: il libro di Musumeci é figlio di questa contro-cultura, espressione di quella civile ribellione a una storia imposta e accettata; ma che tutti sapevano essere macchiata da lacune, da omissioni, da mezze verità; a una veritas conformista, in definitiva. L’indicibile segreto delle foibe, conservato per mezzo secolo, é una lezione esemplare e orrenda; oggi è patrimonio del ricordo comune: é una lectio che può servire a fare accogliere con spirito critico, se si vuole, ma con la massima considerazione lo sforzo di Musumeci e la sua costruttiva ispirazione, oltre le tradizionali pietre di confine. “La verità resiste in quanto tale se non la si tormenta”, fa dire Frederich Dürrenmat a Tiresia, nella sua “Morte della Pizia”. Ecco.