Da La Repubblica del 12 gennaio
Tutti pazzi per Mussolini? Parrebbe di sì, solo a guardare gli scaffali delle librerie. Dove sono appena arrivate ben cinque edizioni del diario di guerra di Mussolini, ossia le cronache dal fronte pubblicate sul “Popolo d’Italia” tra il dicembre del 1915 e il febbraio del 1917. Il Mussolini soldato, non ancora duce, ma già sapiente artefice di un’autorappresentazione che gli sarebbe tornata utile.
L’inatteso fenomeno editoriale sembra contagiare geografie culturali ed editoriali molto distanti, dalla sinistra di Mario Isnenghi e Mimmo Franzinelli alla destra postfascista di Alessandro Campi, fino a toccare le sponde eversive e criminali di Franco Freda, sì lui, il terrorista, responsabile insieme a Ventura della strage di piazza Fontana, che incredibilmente sopravvive come editore di Ar (marchio distribuito da una libreria di Avellino). E accanto a questi lavori c’è anche il journal mussoliniano curato da Denis Vidale per la Biblioteca dei Leoni. A tenerli insieme, nella siderale lontananza, la comune riscoperta di un testo ovviamente riproposto più volte nel ventennio nero, poi rimasto sepolto nell’opera omnia mussoliniana e di fatto ignorato dalla storiografia della grande guerra.
Perché questo improvviso interesse per il diario dal fronte?
La risposta più semplice è di carattere giuridico ed editoriale: sono appena scaduti i diritti di Mussolini – proprio come quelli di Hitler, le case editrici possono liberamente riproporre i testi senza passare attraverso la tagliola del copyright. Spiega Ugo Berti, responsabile del catalogo storico del Mulino che ora pubblica l’opera con la introduzione di Isnenghi (Il mio diario di guerra): «Nel centenario del primo conflitto mondiale siamo andati tutti a riguardarci la bibliografia, scoprendo in questo modo testi dimenticati come il diario di Mussolini. La coincidenza dello scadere dei diritti ha fatto il resto. Da qui il gran fermento dell’editoria, mossa anche da ragioni di mercato: la grande guerra fa vendere». Una spiegazione minimalista, quella di Berti, che seppure fondata non esaurisce la questione.
E allora per capire di più bisogna partire dalla sponda sinistra. E chiedersi perché uno storico come Isnenghi, che nel Mito della Grande Guerra aveva ignorato il diario di Mussolini, oggi decida di firmarne la introduzione. «Ho cominciato a fare i conti con quel lavoro in uno dei convegni animati da Gianfranco Folena a Bressanone», risponde lo studioso dalla sua casa di Padova. «Poi, nel 1989, quando ho ripubblicato il Mito dal Mulino, decisi di riconoscere pubblicamente il mio errore: il diario di Mussolini è uno dei testi più incisivi della letteratura di guerra. Si era trattato di un’automutilazione, dettata dal clima politico e culturale in cui preparai il Mito». Il suo capolavoro storiografico uscì in prima edizione da Laterza nel 1970, nel pieno dell’antifascismo militante. «Nessuno mi ha mai rimproverato quell’omissione», continua Isnenghi. «La memoria del fascismo era ancora molto viva. Oggi rimuovere il diario di Mussolini non avrebbe senso».
Però ancora oggi c’è chi oppone resistenza. Ed è lo stesso Berti a raccontarcelo, dal suo longevo osservatorio storiografico. «Il nome di Mussolini per qualche storico è tuttora impronunciabile. Ancora Marco Mondini, nel suo bel libro La guerra italiana pubblicato lo scorso anno, nemmeno cita il diario. Gli ho chiesto perché e lui mi ha risposto che gli era apparso inopportuno occuparsene».
Ad alcuni studiosi, al contrario, appare opportuno occuparsene proprio con un intento civile. È il caso di Mimmo Franzinelli, curatore del Giornale di guerra per le edizioni Leg. «Anche nella diversità dei testi, accade con i diari di Mussolini quello che è successo con il Mein Kampf. Anche io mi sono posto il problema dell’opportunità: ho scelto di pubblicare il testo con centinaia di note in cui invito a non prendere per oro colato le parole del soldato Mussolini. In sostanza cerco di demistificare la sua autorappresentazione eroica, mostrando la doppiezza tra il Mussolini politico e il Mussolini militare». Un taglio critico in parte coincidente con la lettura di Isnenghi, che mette in guardia dalla finalità di Mussolini: orientare lo sguardo di chi lo legge – si tratta di un diario pubblico, pubblicato sul suo giornale, non un diario privato – offrendo di sé l’immagine di «protagonista e coro, leader e gregario, attore politico trainante e soldato nella massa». Insomma, ricerca del consenso e prove generali da futuro duce.
Lettura che non convince Alessandro Campi – un passato remoto nelle file del neofascismo, un passato prossimo da protagonista nel laboratorio della nuova destra democratica di Gianfranco Fini, oggi direttore della Rivista di Politica. Tra pochi giorni esce da Rubbettino una sua accurata edizione storico-critica del Giornale di Guerra. «Non mi persuadono quelle interpretazioni che tendono a sovraccaricare il testo di Mussolini di un significato strumentale: il diario segnerebbe l’inizio del suo culto pubblico, con il fine di accreditarlo quale leader politico degli italiani. Tutto questo non tiene conto di vari elementi. Il primo è che Mussolini quando va in guerra può morire, cosa che è accaduta ad altri interventisti. Il secondo è che il diario viene scritto in un una fase magmatica della sua biografia che non prefigura né fascismo né conquista del potere». Questa lettura, secondo Campi, ha finito per svalutare un testo di grande dignità sul piano politico e letterario, un racconto in presa diretta dotato di una freschezza che manca a molta letteratura di guerra, rielaborata in fase successiva. «La sua assenza, nel trionfo memorialistico del centenario bellico, mi ha molto sorpreso. Per questo l’ho proposto a Rubbettino. Era giusto sottrarlo all’area nostalgica neofascista per restituirlo agli italiani in forma critica». Al di là delle diverse interpretazioni, resta da capire perché oggi Mussolini possa essere al centro della scena editoriale e dunque culturale. La «fascinazione ancora esercitata tra i più giovani», come sostiene Franzinelli? O «il carisma dell’uomo solo al comando, in sintonia con lo spirito del tempo», come dice Isnenghi? Fa riflettere l’affermazione di Ugo Berti: «Dieci anni fa il Mulino avrebbe avuto dei problemi ad avere Mussolini in catalogo». Forse oggi c’è maggiore serenità, ormai distanti le aggressioni della destra anti antifascista, il tentativo di riabilitare politicamente il duce ( «il maggior statista italiano» disse Fini prima della svolta democratica), lo svilimento della Resistenza, l’equiparazione tra partigiani e repubblichini, la proposta dì abolire il 25 aprile. Umori che ora avvertiamo lontani, ma in realtà risalgono a un passato recente. «Oggi pubblicare Mussolini è il segno di un paese maturo», dice Campi. O, meglio, la speranza di un paese maturo, che abbia davvero fatto i conti con il passato.
A proposito. In questo nostro girovagare tra i testi mussoliniani ci siamo imbattuti, grazie a Ugo Berti, in una stranezza. L’Istituto Poligrafico dello Stato continua a proporre, in una collana per bibliofili, Scritti e discorsi di Mussolini. Ma non un’edizione critica, bensì la veste originale uscita nel 1939, carta in filigrana con il fascio littorio e la sigla LDS, Libreria dello Stato. Che era quello fascista. Questo, sì, decisamente imbarazzante.
di Simonetta Fiori
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