Gli piacciono le donne, anzi di loro non ne può fare a meno; deve sempre dare prova della sua virilità, perché una femmina è un oggetto che si possiede. Mimì Cafiero spadroneggia per la sua Reggio Calabria. Ha la terra, ha la roba, vive senza problemi e vuole sempre di più. Ha al suo fianco un garzone che comanda a bacchetta, lo tratta come una bestia da soma. Eppure è il suo fratellastro. Si chiama Ciccio, è tonto, è nato scemo. Mimì gli dà vitto e alloggio, ossia una scodella di pasta e un giaciglio in una baracca per gli attrezzi. Uomo-pavone, anzi gallo da cortile, così appare agli occhi di tutti questo giovane proprietario terriero del quartiere Sbarre di Reggio Calabria; così lo dipingono i suoi amici. Gli vogliono bene, anzi lo tollerano, perché è un uomo che porta rispetto, di cui ci si può fidare. Mimì però non si fida troppo degli altri, in particolar modo del suo amico Peppino, compagno di avventure, di bevute e di bordelli. Peppino ha modi gentili, tratta le donne con delicatezza, anche se il fine è sempre uno: andarci a letto.
Mimì trova moglie
Le avventure annoiano Mimì, soprattutto dopo che una ballerina francese passata da Reggio Calabria gli trasmette una malattia venerea che mette a repentaglio la sua virilità. C’è bisogno di una moglie, di una che salvi le apparenze, che faccia di questo galletto di provincia un uomo completo, anzi un padrone a tutti gli effetti. Mimì trova la femmina giusta in Lina Montevergine, donna che voleva sposare un professionista. Nonostante tutto lei accetta di accasarsi con un padroncino che non la lascerà morire di fame. In un primo momento crede anche al fatto che Mimì abbia modi gentili, ma dopo il matrimonio si accorgerà che anche lei fa parte della roba del signore. Guai a chi la guarda, a chi le si avvicina, soprattutto quel Peppino di cui lei si infatua e di cui Mimì teme la presenza. Per la signora Cafiero cominciano i guai… e che guai. Anche per Mimì però inizieranno momenti bui, terribili, soprattutto quando la cecità avvolgerà i suoi occhi. Quella malattia venerea che ha curato male si ripresenterà sotto un’altra forma. Accetterà questa batosta Mimì?
La provincia e la sua vivacità
Ha quasi ottant’anni questo romanzo, fu scritto infatti tra il 1947 e il 1948, ma venne pubblicato nel 1959. Siamo negli anni Venti del secolo scorso, in una Calabria in cui l’emancipazione è un miraggio, nella quale l’arretratezza è abissale, in cui la società vive ancora secondo stereotipi già ben raccontati da due scrittori siciliani: Verga e Brancati. La Cava ricalca quel filone. Il gallismo di Mimì però si lega all’amore per la malavita. Il codice d’onore della ‘ndrangheta, che qui non viene citata, plasma il carattere di questo piccolo proprietario terriero sempre pronto a difendere, anche da nemici immaginari, i suoi beni. L’accumulo, l’ostentazione della propria supremazia e l’omertà sono atteggiamenti consolidati. Per questo romanzo, La Cava trae ispirazione da un fatto realmente accaduto, il cosiddetto omicidio del cieco che per le sue modalità fece scalpore, soprattutto per il tentativo di etichettarlo come un delitto d’onore. Lo scrittore di Bovalino invece va nel profondo e da questa vicenda porta alla luce tutta quella mentalità fatta di leggi non scritte e di consuetudini che nel tempo sono diventate dei dogmi. Questa unione tra realtà e finzione unisce La Cava a Sciascia. Infatti, i due sono rimasti sempre in contatto.
La legge di provincia
Non esiste la legge dello Stato, ma quella tribale, anzi familiare. Tribali sono i giuramenti, i silenzi, i totem e i tabù. In questo contesto, il Fascismo è pericoloso, perché può sovvertire l’ordine sociale. In Mimì infatti non c’è assolutamente uno spirito liberale o democratico, la paura che nutre nei confronti del nuovo regime è dettata dal fatto che esso è rappresentazione dello Stato, da sempre difensore degli imbecilli, mentre la provincia vive secondo regole arcaiche, consolidatesi nel tempo, che lasciano libertà d’azione agli uomini veri. Per Mimì, il Fascismo non mette in pericolo i principi democratici, questo pensiero così alto neanche lo sfiora, ma il codice d’onore dei padri, seguito alla lettera dai galantuomini. Non è un caso che a mettere in allarme il signor Cafiero, sia l’arresto del capobastone della zona, nonché suo amico, condannato a 24 anni di carcere nonostante avesse dato sempre prova della sua audacia, della sua capacità di giudizio e della sua forza nell’appianare ogni conflitto.
La Cava intellettuale da riscoprire
La Cava è nato nel 1908 a Bovalino e morì nella sua città nel 1988. Si spostò tra Roma e Siena solo per gli studi universitari. Infatti, conseguita la laurea, nel 1931 ritornò a casa e non la abbandonò più. Ci lascia un grande insegnamento: la provincia è viva ed è una costante fonte di ispirazione; la vera letteratura non nasce nei salotti letterari. Fino al 1988, La Cava ha mantenuto stretti rapporti con Sciascia. Lo scrittore siciliano lo ammirava e lo elogiò in più occasioni. La rilettura di Mario La Cava è fondamentale per noi calabresi in cerca di troppi consensi fuori dal nostro territorio.