Le persone che fuggono da un pericolo immediato a causa della crisi climatica non possono essere rimandate nei loro Paesi d’origine. Lo ha stabilito il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite pronunciandosi sul caso di Ioane Teitiota.
Si tratta di un abitante dell’isola di Kiribasi che aveva chiesto asilo alla Nuova Zelanda perché la sua abitazione è minacciata dall’innalzamento del livello del mare (qui sono delineati i contorni della vicenda). Dicono gli osservatori che la decisione è importante per due motivi. È la prima volta che il Comitato si pronuncia su un ricorso presentato da un individuo in cerca di protezione dagli effetti dei cambiamenti climatici. Ed è la prima volta che riconosce che la legislazione internazionale sui diritti umani può imporre agli Stati di astenersi dal rimpatriare gli sfollati sul clima. Pur non essendo vincolante, la decisione si basa sulla legge internazionale sui diritti umani (Iccpr), che è invece vincolante. In sostanza, il ragionamento del Comitato potrebbe essere adottato da altri tribunali, in particolare europei.
Cosa potrebbe accadere?
Può darsi che si aprano nuovi spiragli su come debbano essere riconosciuti i migranti climatici. Non esiste ancora una cornice internazionale sugli sfollati per cause climatiche. È stata codificata l’espressione “migranti ambientali” per definire quell’esercito di esseri umani in fuga da catastrofi naturali, dall’innalzamento del livello del mare, da siccità e desertificazione. I numeri del fenomeno sono già alti ma in futuro potrebbe aumentare in modo esponenziale. Con l’attuale ritmo di emissioni di anidride carbonica, l’Onu ha stimato che entro il 2050 si raggiungeranno almeno i 200 milioni di rifugiati ambientali. Ad oggi queste persone non rientrano sotto la protezione della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati: non sono considerate come perseguitati. Secondo alcuni, perché la Convenzione è stata concepita nell’Europa del dopoguerra, molto prima che il cambiamento climatico diventasse una questione globale.
Ora nelle sue considerazioni il Comitato identifica chiaramente queste persone come un gruppo bisognoso di protezione. Un’interpretazione estensiva che può portare a delle conseguenze. Riferisce il quotidiano Libération che un tribunale di Bordeaux ha accolto la domanda di permesso di soggiorno per motivi medici legati all’inquinamento da parte di un uomo del Bangladesh. La sentenza si configura come la prima in materia di immigrazione a riconoscere l’inquinamento atmosferico come fattore di rischio. Emerge allora un ruolo essenziale dei tribunali nell’affrontare la crisi climatica. Il Programma delle Nazioni unite per l’ambiente (Unep) lo ha spiegato nel “Global climate litigation report 2020”: le cause legali sul clima sono quasi raddoppiate negli ultimi tre anni. Nel 2017 erano 884 in 24 Paesi; alla fine del 2020, se ne contano almeno 1.550 in 38 Paesi, 39 compreso il sistema giudiziario dell’Unione europea. Mentre i contenziosi continuano a concentrarsi nei Paesi ad alto reddito, il Rapporto elenca casi recenti da Colombia, India, Pakistan, Perù, Filippine e Sud Africa: il che fa prevedere una tendenza di crescita ulteriore nel Sud del mondo. Sempre secondo il Rapporto, il background dei querelanti sta diventando sempre più diversificato e include organizzazioni non governative, partiti politici, anziani, migranti e popolazione indigene. Ha detto Arnold Kreilhuber, direttore ad interim della divisione legale dell’Unep: “I cittadini si rivolgono sempre più ai tribunali per accedere alla giustizia ed esercitare il loro diritto a un ambiente sano”.
La risposta al fenomeno ovviamente non può essere affidata solo ai tribunali. La complessità che ne è all’origine suggerisce di gestirlo come un fatto strutturale molto più ampio. Perché è chiaro che nei prossimi 20-30 anni un importante flusso di rifugiati si riverserà nelle terre più ricche e più abitabili. Grammenos Mastrojeni, segretario generale aggiunto dell’Unione per il Mediterraneo, lo ha spiegato bene nella trasmissione “Alta sostenibilità” a cura dell’ASviS su Radio Radicale: “Nel Mediterraneo siamo nell’occhio del ciclone e quello che noi affronteremo sarà la base per le future scelte della comunità internazionale che dovrà far fronte, se non cambiamo rotta molto rapidamente, a fenomeni immensamente maggiori. Lo scioglimento dei ghiacciai dell’Himalaya può mettere in moto 600 milioni di persone; il degrado degli ecosistemi montani mette a rischio imminente circa 913 milioni di abitanti di queste aree a livello mondiale; l’innalzamento del livello dei mari è un rischio che può riguardare da 400 a 600 milioni di persone. Questo significa che dobbiamo prepararci non soltanto a gestire un importante drammatico flusso, ma ad affrontare una ristrutturazione completa della produzione, della fertilità, del commercio e dell’industria”.
Secondo questo ragionamento, se forse in futuro il pianeta sarà attraversato da un “movimento puro” di migranti climatici, attualmente la causa economica, climatica e quella legata al conflitto sono strutturalmente indistinguibili. Non è vero, infatti, che più si è poveri, più si è inclini a spostarsi: al di sotto di un certo livello di reddito, si rimane intrappolati in quella che Mastrojeni definisce “trappola della povertà”. Esiste una relazione di costo-opportunità che illustra Francesca Santolini in Profughi del clima: chi sono, da dove vengono, dove andranno (2019, Rubbettino Editore): “I ceti meno abbienti spesso non possono permettersi di pagare il costo della migrazione. Le persone più povere affrontano una ‹‹doppia serie di rischi›› essendo incapaci di evitare le minacce climatiche e particolarmente vulnerabili ai loro impatti. Ne consegue che i cambiamenti climatici possono generare immobilità. Il cambiamento climatico può avere un effetto immobilizzante ogni volta che il suo impatto riduce le risorse necessarie per muoversi”.
Molte analisi concordano sul fatto che ciò che accadrà in Europa e in Italia sarà di utilità per il resto del mondo. Per varie ragioni, dopo la crisi del 2015 l’Europa ha faticato a elaborare una strategia comune sul tema a causa delle grandi tensioni tra gli Stati membri. C’è stato un importante segnale lo scorso settembre da parte della Commissione con il nuovo patto per la migrazione: ora si tratta di negoziarlo e di trovare un accordo tra gli Stati, si spera senza eccessive difficoltà. L’Italia è in una posizione straordinaria di ponte nel Mediterraneo, di fronte a un fenomeno di vasta scala: la desertificazione del Sahel: un fattore che potenzialmente può spingere a spostarsi circa 200 milioni di persone nel futuro. Il Parlamento ha approvato lo scorso 18 dicembre la riforma dei decreti sicurezza, reintroducendo la protezione umanitaria. La questione impatta su tutti i livelli amministrativi, anche sui governi locali. Ecco perché al recente Global forum on migration and development (Gfmd), i sindaci di tutto il mondo hanno esaminato le sfide riguardanti un efficace coordinamento locale e nazionale sul tema delle migrazioni (qui la sintesi).
Ma che cosa si può fare a livello internazionale?
Alcuni ritengono che l’approccio migliore sia investire in misure di mitigazione per ridurre al minimo le conseguenze catastrofiche alla base dello sfollamento. Ossia fornire assistenza alle nazioni più vulnerabili che potrebbero generare un gran numero di rifugiati climatici. Il che significa usare lo stesso principio che sta alla base del quadro giuridico che disciplina i rifugiati politici, applicandolo ai rifugiati climatici: la responsabilità collettiva della comunità internazionale quando gli individui non sono più in grado di avvalersi della protezione del proprio Stato. C’è chi ritiene che il passo più semplice sia espandere i principi guida delle Nazioni unite sugli sfollamenti interni per coprire situazioni diverse dai disastri. Le altre ipotesi avanzate sono: la revisione della Convenzione di Ginevra, l’allargamento delle fattispecie della protezione internazionale a tutto lo spettro delle condizioni economiche e sociali che producono le migrazioni; un nuovo strumento di diritto internazionale ad hoc. Sono vie ambiziose ma non facili da percorrere in uno scenario frammentato come quello attuale.
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