dal Corriere della Sera del 16 giugno 2013
Industrializzazione sbagliata, burocrazia e sprechi nemici del nuovo meridionalismo di Giovanni Russo
era una volta «la questione meridionale». Dagli anni Cinquanta agli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso ogni comizio, soprattutto del Pci, era incentrato sullo slogan «le donne, i giovani, il Mezzogiorno». La discussione politico-culturale era fervida, il dibattito sulle riviste che allora esistevano, «Nord e Sud» (Pasquale Saraceno, Francesco Compagna, Manlio Rossi Doria, Vittorio de Caprariis) e «Cronache meridionali» (Giorgio Amendola, Giorgio Napolitano, Gerardo Chiaromonte), di posizioni politiche differenti, contribuì a fare del Mezzogiorno un problema nazionale. I risultati ottenuti dai governi che si susseguirono dopo la seconda guerra mondiale furono purtroppo di non grande rilievo, limitati all’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno e di altri enti di riforma che qualcosa riuscirono a fare, ma fallirono sostanzialmente la prova contribuendo, con i loro finanziamenti a pioggia, alla degenerazione della società, all’espansione del clientelismo, alla logica della spartizione dei sussidi e dei favori. I partiti, poi, non seppero o non vollero fare scuola di democrazia, furono piuttosto i distributori di poteri grandi e piccoli e aggravarono gli antichi mali, il familismo amorale e la carenza di spirito comunitario. La «questione meridionale» di quei decenni non esiste più, quelle importanti riviste sono morte, la discussione langue, si parla del Sud soltanto in occasione di qualche catastrofe, di qualche alluvione: ci si è dimenticati di quel che in tempi lontani scrisse Giustino Fortunato sulla Calabria, «uno sfasciume pendulo sul mare» e non si è provveduto per nulla. Si parla di quella regione soprattutto a proposito dei poteri criminali. La ‘ndrangheta calabrese è diventata la prima delle mafie, diffusa, più di Cosa nostra, in Italia e nel mondo. E pensare che chi, ancora alla fine degli anni Settanta, se ne occupò, veniva guardato con ironia: quel fenomeno, sottovalutato, era considerato arcaico, seppellito dalla modernità. I problemi oggi non sono per nulla risolti, si sono aggravati, e se si vuole salvare questo nostro Paese rotto e corrotto bisognerebbe proprio riprendere in mano senza ipocrisia i fili dei nostri Sud abbandonati.
È appena uscito un libro di Giovanni Russo, Nella terra estrema. Reportage sulla Calabria (Rubbettino) che è un dolorante riepilogo di quel che è successo, dagli anni Cinquanta a oggi, in quella desolata regione. Russo, nel saggio introduttivo di Vito Teti, viene descritto come “l’ultimo meridionalista”, definizione alta e nobile. Lo scrittore e giornalista ha raccolto nel libro i suoi saggi, le sue inchieste, i suoi articoli scritti su quella regione amata: da qualche pagina di Baroni e contadini, uscito da Laterza nel 1955, uno dei libri più belli della letteratura meridionale che mantiene intatta la sua freschezza narrativa, a un saggio di quest’anno sul possibile futuro del Mezzogiorno e della Calabria. Nonostante tutto quel che è successo o che non si è voluto far succedere, Giovanni Russo non ha perso la speranza. Scrittore civile, figlio di Corrado Alvaro e di Carlo Levi, nato al «Mondo», il gran settimanale di Mario Pannunzio che nel panorama giornalistico di oggi manca, è il continuatore della lezione di De Sanctis, Salvemini, Dorso, Zanotti Bianco. Vito Teti, autore dello straordinario saggio pubblicato da Donzellinel 2004, Il senso dei luoghi, sui paesi abbandonati della Calabria, mette in rilievo nell’introduzione l’importanza di Russo, del suo meridionalismo democratico e laico, delle sue analisi intelligenti verificate di persona andando sui luoghi a vedere, con umiltà e coraggio.
Lo scrittore si è battuto da sempre contro il meridionalismo fasullo, contro le cattedrali nel deserto, contro il genere dì industrializzazione voluto dalla sinistra, fallita e costata un mucchio di miliardi, contro la burocrazia dissennata, responsabile di aver dissuaso interventi imprenditoriali che sarebbero stati preziosi.
Mezzo secolo e più di vita calabrese sono documentati: i paesi e le città, ì fatti violenti di Reggio Calabria, lo Stato e la società, l’emigrazione di un milione di calabresi, l’inefficienza della pubblica amministrazione, la visita di Saragat, nel 1966, che suscitò tante speranze, la marcia dei 30 mila a Roma, nel 1978, la Calabria di Corrado Alvaro. Ci sono nel libro anche ritrattini pieni di umanità e di poetica grazia, contadini, pastori, preti, le donne vestite di nero che vogliono baciare la mano al presidente della Repubblica. Con pochi tratti Giovanni Russo sa fissare il carattere dei personaggi, anche di quelli che gli sono poco congeniali, come quel barone «con una testolina d’uccello bizzosa e un grosso naso a pipa»
Di Corrado Stajano
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