Nel saggio di Aurelio Musi, Masaniello. Il masaniellismo e la degradazione di un mito (Rubbettino Editore), sono ben distinti storia, mito, degradazione del mito di Masaniello. Un conto è la storia del mito, un conto è il concetto di «masaniellismo» che è, per usare una metafora studiata dal filologo, Harald Weinrich, una moneta di scarso valore. In altre parole, è una forma concettuale parassitaria, una concrezione nata sulle spalle della lunga fortuna del mito di Masaniello, in cui si investì in modo più o meno energico, più o meno rispettoso dell’identità dello stesso capopopolo (così come è stata ricostruita, pur con un grado di incertezza, inevitabile quando si studiano personaggi così lontani nel tempo, per giunta di umilissimi origini ed emotivamente fragili, pur se coraggiosi).
In questa storia si riscontrano momenti più positivi che negativi per la figura di Masaniello; si pensi ai primi mesi dopo la morte del capopopolo. In un anonimo Ragionamento è appunto Masaniello, dall’Aldilà, ad indicare la strada ai due popoli della città (plebe e popolo civile), ormai già in rotta con la Corona spagnola; da cos’altro nasce quel discorso – come tanti altri – se non dalla consapevolezza dell’enorme credito che vantava Masaniello presso gli utenti dei messaggi politici nella war writing che si intrecciò alla «guerra» contro la Monarchia Spagnola e la alimentò? Si pensi poi alla stagione risorgimentale con la sua intensa produzione di drammi, nuovi racconti storici, pezzi giornalistici, in cui il capopopolo napoletano divenne eroe nazionale.
Già nelle pagine introduttive di La rivolta di Masaniello nella politica barocca (un volume del 1989), Musi segnalava l’affettuosità di Michele Baldacchini (allievo di Puoti e gravitante poi intorno al «Progresso» di Giuseppe Ricciardi) per Masaniello e lo straordinario successo dell’opera musicale di Auber, La Muette de Portici, in cui la muta è la sorella del giovane pescivendolo. La stagione risorgimentale compensa ampiamente, a voler fare un bilancio, i ricordi negativi e i silenzi degli anni precedenti. Un racconto figlio del Risorgimento – cui questo libro tributa un esplicito omaggio – è quello di Bartolommeo Capasso, pur se Capasso si mantenne, come è noto, ben lontano dalle barricate, preferendo dedicarsi il più possibile agli amati e preziosi studi. Era però figlio del Risorgimento e il suo sguardo è benevolo verso Masaniello e il suo mondo, la stessa curiosità verso la storia vera del capopopolo (poco dopo gli studi di Carlo Troia, di Scipione Volpicella e di vari altri eruditi).
La storiografia avrebbe poi preso le distanze da tutto ciò sottolineando il ruolo di Genoino durante i primi giorni della rivolta (quelli considerati ‘di Masaniello’: perciò Schipa parla di «cosiddetta rivoluzione di Masaniello»; a suo avviso, si era trattato piuttosto della «congiura di Genoino»). Masaniello però è stato ben altro per il ruolo svolto in quei giorni, per le attese cui ha saputo dare una risposta. Masaniello-Davide sfidò Golia con coraggio; guidò con fermezza un’ampia parte della popolazione napoletana, sapendo svolgere un ruolo di mediazione tra anime diverse del popolo. Musi fa presente tutto questo ai lettori del volume, ma il suo obiettivo fondamentale è far interrogare su quello che si intende quando si dice ‘è un masaniello’, in cui Masaniello è diventato un sostantivo universale. Non siamo più nell’ambito della mitografia del personaggio, ma del linguaggio della pubblicistica e in generale dei media.
Da anni si associa Masaniello a personaggi diversi del mondo della politica e non solo: da Cirino Pomicino ad Alessandra Mussolini («a’ Masaniella nera»). La sinistra sembrava invece poco interessata a riprendere l’icona, già considerata ambigua, se non negativa. Poi sono giunti Berlusconi che si è associato a Masaniello più volte e de Magistris che pure, almeno in una prima fase, ha accettato di essere considerato un “nuovo Masaniello”. Possono però soddisfare queste autoidentificazioni con Masaniello? Sia queste associazioni sia l’uso del termine «masaniellismo» danno visioni riduttive o distorte di Masaniello e della sua rivolta. Musi presenta una sorta di dossier con cui dimostra la grande diffusione del termine «masaniellismo» nella pubblicistica (si va da Roberto Gervaso, che lo usa a proposito di Lauro, a Giuliano Ferrara, che vi fa ricorso, insieme al «senso borbonico dell’autorità», a proposito di de Luca, a Roberto Saviano e vari altri), poi sottolinea la contiguità tra masaniellismo e fenomeni apparentemente diversi come populismo e neo-borbonismo.
Chiarendo quali siano i contenuti certi di queste concezioni, fa infine ben cogliere come per masaniellismo si intenda un fenomeno che, se non si ferma al gesto di rottura ma inconcludente, sfocia nell’autoritarismo. Della storia della rivolta si conserva ben poco; entra in un amalgama in cui perde valore. Le ragioni di queste contaminazioni o slittamenti semantici vengono in parte colte negli stessi meccanismi della comunicazione («Le parole vagano così come schegge, frammenti, corpuscoli informi nell’universo dell’immediatezza. Il linguaggio della comunicazione non si preoccupa di offrire strumenti di comprensione), e in parte vengono alla mente, sollecitate dalla stessa lettura: sono gli stessi governi populisti i milieux in cui proliferano analogie arbitrarie e abusi linguistici.
Vorrei ricordare in conclusione un recente intervento di Augias in cui, soffermandosi su I rischi della percezione di Bobby Duffy (Einaudi), parla dell’epoca della post-verità (sta diventando poco importante se qualcosa sia vero o meno: “è vero per me”). Questo libro rompe quindi schemi consueti, ma sembra suggerire anche che evocare a sproposito personaggi storici può non essere produttivo (la circolazione del termine di masaniellismo dovrebbe scoraggiare dall’associarsi a Masaniello… e invece….). Non è questo tuttavia l’obiettivo ultimo del libro. La lettura seria della storia (pur con i suoi limiti, il suo non poter che essere in divenire, il suo minore o maggiore grado di rappresentatività dei fatti) è il vero antidoto non al mito negativo di Masaniello, ma ad associazioni che propongono in definitiva un’immagine negativa della «moltitudine» e, più nello specifico, di una rivolta sulla cui importanza, ampiezza e tragicità siamo invece tutti d’accordo.
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