Masaniello, forse il personaggio più universalmente noto e popolare della storia di Napoli, è stato ed è ancora l’icona e il simbolo di tutto e il contrario di tutto, del bene e del male: rivoluzionario, interprete dei bisogni delle classi più basse, ma anche odioso demagogo e tiranno spietato; trasfigurazione eroica della santità, ma anche demonio e concentrato di tutti i vizi possibili e immaginabili, bestemmiatore e sodomita, espressione degli istinti quasi animali; umile rappresentante degli sfruttati, ma anche metamorfosi inevitabile del popolano che, elevato ai piani alti del potere, esce fuori di senno.
Pertanto colui che, a metà del Seicento, guidò per dieci giorni la rivolta napoletana in una fase assai critica del sistema imperiale spagnolo, deve ancora trovare una sistemazione storica accettabile, nonostante la sua popolarità universale. Impesa non è facile, però. Alle difficoltà dell’operazione contribuiscono vari fattori. In primo luogo, la carenza di fonti e documenti attraverso i quali sia possibile ricostruire la biografia del personaggio prima del suo protagonismo tra il 7 e il 16 luglio 1647, quando Tommaso Aniello D’Amalfi (patronimico e non nome di luogo), poco più che ventenne, divenne il leader della rivolta.
Bisogna poi fare i conti con la mitografia del personaggio che, a partire già dal periodo a lui contemporaneo fino a tempi recenti, ha coinvolto narrazioni, arte, musica, teatro, le forme più varie della cultura italiana, europea e americana. E la storicizzazione del mito, attraverso una sua puntuale ricostruzione nel tempo e nello spazio, è necessaria e pregiudiziale rispetto alla storia stessa di Masaniello. Bisogna attentamente analizzare le forme che, soprattutto in tempi recenti, hanno degradato il mito attraverso un uso pubblico, diremmo oggi, di Masaniello, strumentalizzandolo ad obiettivi di parte. Infine vanno spiegati origini, sviluppi e significati di un termine che, soprattutto nella pubblicistica e nei media, è stato coniato con diretto riferimento al pescivendolo napoletano: il termine “masaniellismo”.
Tutti i piani suindicati sono percorsi nell’ agile e brillante volume di Aurelio Musi, “Masaniello. Il “Masaniellismo” e la degradazione di un mito” (Rubbettino Editore, € 14). Si tratta del secondo titolo di una nuova collana, dritto/ rovescio, ideata e diretta da Eugenio Di Rienzo che “intende rivisitare temi, eventi, personaggi del passato su cui si è consolidata un’interpretazione convenzionale, comune e dominante. Perché dietro il dritto dell’analisi storiografica c’è sempre un rovescio che ha molte cose da dire per interrogare il presente”.
Musi ha già al suo attivo l’opera ormai classica La rivolta di Masaniello nella scena politica barocca, pubblicata in prima edizione da Guida nel 1989 e in seconda nel 2002. Ora l’autore offre numerose notizie inedite sulla biografia del giovane Masaniello, ricostruisce i “dieci giorni che sconvolsero Napoli”, la mitografia del personaggio dal Seicento a oggi. Ma la parte più originale del volume, dalla scrittura limpida e facilmente fruibile anche al lettore non addetto ai lavori, è quella in cui Musi spiega la degradazione del mito, le molteplici disavventure del termine “masaniellismo”, il suo nesso col neo-borbonismo e con tutte le versioni del populismo.
In questo libro si analizza il procedimento logico attraverso il quale Masaniello si trasforma in napoletano-tipo per confluire poi in una condizione, in un complesso di comportamenti che nel linguaggio mediatico sono stati definiti “masaniellismo”. Il singolo personaggio storico si rappresenta in una generalizzazione antropologica che costituisce l’humus fertilizzante di un uso politico della storia. Così nella vulgata “masaniellista” il personaggio diventa il prototipo del ribelle senza sbocco, privo di razionalità politica e, pertanto, diretto da altri, ispiratore di tutti coloro che vogliono solo “fare ammuina” o “scassare”: un microcosmo che dovrebbe ricapitolare il macrocosmo dell’intera vicenda napoletana in una sorta di “eterno ritorno” della sua condizione quasi ineluttabile.
Per fortuna la storia di Napoli è assai più ricca, intensa: essa va ben oltre i suoi stereotipi. Forse Napoli è parte dell’altra Europa, come amava scrivere Giuseppe Galasso, ma appartiene sempre e comunque all’Europa. Eppure quante deformate icone del popolano tanto amato da Baruch Spinoza che, secondo il suo maggior biografo Johannes Colerus, volle addirittura ritrarsi nei panni e con le fattezze del «famigerato capo degli insorti napoletani», si aggirano ancora, tra lazzi e schiamazzi, nei palazzi del potere della città che ospitò per quasi tutta la sua vita Benedetto Croce.
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