Da Il Corriere della Sera del 22 aprile
Quando arrivò come direttore al «Corriere della Sera» il 25 aprile 1945, Mario Borsa aveva 75 anni. Aveva vissuto già «tre vite» e si apprestava a coronare con un anno di battaglie, in cui avrebbe fatto valere tutto il peso del più importante quotidiano italiano in favore della Repubblica, il suo intenso percorso professionale. Di Borsa (1870-1952) credevamo si conoscesse tutto, ma abbiamo dovuto ricrederci leggendo la bella biografia di Alessandra De Nicola, La libertà di stampa è tutto (Rubbettino, pagine 360, Euro 19), basata su una puntuale ricostruzione di testi anche inediti. Lo stesso Ferdinando Borsa, nipote del direttore della Liberazione, che ha messo a disposizione le carte di famiglia e ci regala in prefazione un gustoso ricordo personale, dichiara la sua riconoscenza verso l’autrice per avergli fatto «scoprire» la figura del nonno.
La prima delle «tre vite» di Borsa si svolse tra la cascina Regina Fittarezza, nella bassa lodigiana, a Somaglia, dove nacque, e Milano, la città che aveva accolto la famiglia costretta a lasciare la campagna per la crisi agraria e dove Mario, presto orfano di padre, studiò al liceo Manzoni e poi Lettere all’Accademia scientifico-letteraria. Borsa conobbe Filippo Turati e soprattutto Anna Kuliscioff, la «dottora» che aveva curato gratuitamente la madre Isabella Barbieri. In questi anni di formazione Borsa passò da un radicalismo iniziale intriso di valori risorgimentali al socialismo. Appassionato di Manzoni (portava con sé sempre un’edizione tascabile dei Promessi sposi), studioso dell’umanista Pier Candido Decembrio, abbandonò presto la carriera accademica per il giornalismo. La prima palestra, accettata anche a causa delle necessità economiche, fu nel conservatore «La Perseveranza», dove firmò cronache teatrali e dette buona prova di inviato in Montenegro e in Scandinavia.
Edoardo Sonzogno, editore del «Secolo», organo dei progressisti, che voleva rafforzare l’organico, aveva messo gli occhi su quel giovane promettente. E Borsa si trovò corrispondente da Londra, dove cominciò la sua «seconda vita», in cui scoprì che il liberalismo non era nemico delle conquiste sociali, anzi ne era alla base. L’esperienza inglese ispirò la maggiore opera di Borsa, La libertà di stampa, pubblicata nel 1925 da Corbaccio e riedita nel 1945 da Dall’Oglio. Nel 1910 Borsa rientrò in Italia per contribuire da redattore capo alla fattura del «Secolo». Ma il giornale del radicalismo milanese venne presto fascistizzato dopo l’avvento di Mussolini e Borsa approdò al «Corriere della Sera» dei fratelli Albertini, costretti a lasciare con i collaboratori più fedeli il quotidiano di via Solferino nel 1925.
La «terza vita» fu per Borsa la più dura: attraversò il ventennio fascista con coerenza, conoscendo anche il carcere e il campo di concentramento, riuscendo a sopravvivere grazie alla corrispondenza con il «Times» di Londra.
È su questa figura di antifascista liberale che cadde la scelta di Ferruccio Parri e del Cln, quando nell’agosto 1944 si cominciò a pensare all’assetto del «Corriere della Sera» nel dopoguerra. Una corrente del Chi voleva sopprimere tutti i giornali compromessi con il regime e pubblicare soltanto quotidiani di partito. Borsa in una polemica con Gaetano Baldacci sullo «Stato Moderno» spiegò quanto importante fosse avere a disposizione per le battaglie liberali e progressiste un giornale «ben piantato» che si rivolgeva al pubblico moderato dei senza partito. La vittoriosa battaglia in favore della Repubblica, condotta contro il parere della famiglia Crespi, gli diede ragione. E fu il motivo per cui la sua direzione durò soltanto sino all’agosto 1946.
di Dino Messina
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