Napoli non è una città. È un’idea, una fantasia, un sogno (un sonno). Inferno televisivo per chi non c’è mai stato, purgatorio quotidiano per chi ci vive, paradiso perduto per chi se n’è dovuto andare.
Marco Ciriello è quello che si definisce uno scrittore prolifico, e polimorfo: quanti libri ha scritto, nell’ultimo decennio all’incirca, forse non lo sa neanche Ibs.it, figuriamoci lui. (È anche uno che non se la tira: ha pubblicato per le case editrici più assurde e sconosciute.) Ma, tra i multiformi temi, uno ricorre: Napoli. La Domitiana de Il vangelo a benzina, la religione e il cibo (la religione del cibo) in SanGennaroBomb. E ora questi due, usciti a poca distanza uno dall’altro (l’ho detto che scrive tanto, il ragazzo): Un giorno di questi, per Rubbettino, e Maradona è amico mio, per 66thand2nd.
È come se Ciriello, invece di dedicare uno sforzo titanico alla costruzione di un’opera mondo sulla sua (e mia) città, stesse assemblando nel corso degli anni, più o meno consapevolmente, un mosaico: tessera dopo tessera, un autoritratto di Napoli a rate. Tanto che mi fa venire in mente quell’artista – descritto da uno scrittore cileno – che passa tutta la vita a dipingere una raffigurazione dell’universo, e lo riempie di particolari, di città di animali di battaglie, e quando ha finito, il quadro e la vita, lo guarda e si accorge che non ha dipinto altro che un’immagine del proprio volto. Ma forse mi sto confondendo, tra Napoli e Ciriello.
(Ciriello che è anche, o forse innanzitutto, giornalista. Giornalista sportivo, o meglio grande narratore di storie sportive. E critico letterario, o meglio, kamikaze: uno – l’unico? – che fa ancora stroncature. Sulle pagine del Mattino e del Messaggero, e in delle rubriche proprio, quindi in maniera sistematica e programmatica, e senza guardare in faccia a nessuno, tirando mazzate alle icone pop ma anche ai miti della bolla. Tanto che mi chiedo come mai sia ancora in giro, come mai non sia odiato da tutti – o forse lo è).
Questi due libri che dicevo sono due biografie. Il primo, Un giorno di questi (che è una classica espressione di minaccia, spesso inconcludente, delle parti nostre: un giorno di questi vedi, il bordello che faccio) è dedicato a un giornalista, un cronista, nella Napoli degli anni 80: un personaggio talmente poco conosciuto che potrebbe essere inventato. L’altro, Maradona è amico mio, parla di un tizio dalla vita talmente assurda che, se non fosse la celebrità che è, potrebbe essere un personaggio di fantasia.
Cutolo e i Giuliano, i morti uccisi e il folklore, Franco Califano che sfascia la macchina nel cuore della notte e la verità o quasi su Giancarlo Siani, Eduardo e Troisi, l’aneddotica da realismo magico. E sopra tutto, Dieguito. Ma questi due libri, queste due biografie, sono per versi e motivi diversi anche dei frammenti, delle bozze di autobiografia. Un giornalista che racconta la vita di un giornalista, come in uno specchio – e un bambino tifoso che diventa cronista sportivo inseguendo el Pibe ai quattro angoli del globo, nella seconda parte della sua vita, quella triste e infinita, fuori dal campo, ma sempre al di là degli schemi come un dribbling senza finte: un altro specchio, deforme anziché no.
E insomma quando uno racconta la sua vita attraverso vite che non sono la sua, il pensiero e la penna corrono sempre a Emmanuel Carrère, lo scrittore che non era né Limonov né l’Avversario, eppure avrebbe potuto: il carrerismo oramai è un genere, un topos. Ma un topos più della critica, che riesce a trasformare anche l’innovazione più dirompente in un confortevole cliché: perché a me Ciriello pare compiere un’operazione differente e per certi versi speculare a quella di Carrère. Quest’ultimo parte dal dato di realtà, giornalistico e autobiografico, per poi sublimare il tutto nella finzione o comunque nella letteratura (usa l’autofiction come un grimaldello per aprire la nonfiction e trasformarla in fiction – non so se è chiaro ma meglio di così non riesco). Ciriello, mi sbaglierò, me lo immagino partire da una fantasia, da un’idea, e poi ritrovarsi ad agganciarci pezzi di realtà, sempre più concreti.
Perché Ciriello è devoto del paradosso (“Maradona è il miglior calciatore del mondo, e uno dei migliori calciatori argentini”), dell’artificio, dell’inesistenza – o almeno dell’irrilevanza – del tempo: una specie di Borges c’a pummarola ‘ncoppa, se l’accostamento non suonasse offensivo (per la pummarola, of course). Per esempio: sarà che io non sto appresso (più) alle cose di pallone, ma leggendo Il catenaccio mi sta antipatico (uscito l’anno scorso per Magic press, l’ho detto che ha pubblicato con editori assurdi), con i suoi vertiginosi funambolismi tra letteratura calcio e cultura pop, ci misi un bel po’ a capire che ‘sto Marcelo Bielsa è un allenatore vero per davvero, e non un personaggio ciriellesco (perché nel libro fa delle cose talmente surreali che in realtà sì che lo è, personaggio; e in questo senso dico che Ciriello prima inventa e poi cerca appigli nel reale).
E così Un giorno di questi procede a bozzetti, frammenti, ma più o meno lineari; Maradona è amico mio invece è un continuo shift temporale, uno schizzare avanti e indietro nel lasso tra il 1960 e il 2018: ho subito pensato che se c’era un modo di raccontarlo era questo, non altri. Il tempo non esiste, e se esiste, non è quello in cui vive Diego Armando Maradona. Eppure in altri momenti la Napoli di Ciriello è tutt’altro che fantastica: materiale, zozza e irredimibile – inevitabile – come l’ho letta solo in certi passaggi di Enzo Striano. Però, devo dire anche che.
Marco Ciriello è amico mio. Cioè, amico come lo si può essere al tempo dei social: se non vado errato non ci siamo mai stretti la mano, mai guardati in faccia, figuriamoci mangiare dallo stesso piatto. Eppure è come se. Sarà un fatto di età, siamo tutti e due del 75, sarà un fatto di origini – anche se non siamo cresciuti nello stesso quartiere, lui nientedimeno abitava vicino vicino a Maradona, che invidia, siamo comunque entrambi di estrazione medioborghese (lui forse più medio alta, io più mediobassa). Com’è come non è, leggendo questi due libri mi sono ritrovato in due cose: in tante cose, ma soprattutto in due.
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