Da La Domenica del Quotidiano del Sud del 5 giugno
Deliziosa e molto originale questa raccolta di poesie di Giuseppe M. Maradei, un operatore integralmente assorbito dal teatro, in particolare da quello di indirizzo popolare e delle rappresentazioni sacre (attore, regista, autore di testi teatrali), recentemente scomparso: “Di versi”, prefazione di Pino Corbo, Iride, marchio del gruppo Rubbettino, Soveria Mannelli, 2016, pp. 75, euro 10,00.
La sorpresa della raccolta è costituita dalla natura dei testi, tutti coerentemente e programmaticamente concepiti e realizzati come poesie, – e fin qua non ci sarebbe motivo alcuno di meravigliarsi, perché tanti sono stati gli autori di teatro, che si sono parallelamente dedicati alla poesia, in quanto poesia. Basti pensareì a Shakespeare, innanzitutto, e poi a tanti altri fino a Pirandello, a Brecht, a De Filippo e oltre, che sono stati appunto anche poeti. Ma, nel caso di Maradei, c’è altro: l’intenzione di maneggiare la poesia non solo come genere letterario a sé, ma insieme come letteratura che fa autocoscienza su sé stessa, come una scrittura letteraria elevata al quadrato. Lo dice l’autore stesso in una velocissima, come appena sussurrata, noticina di premessa. Guardando le sue composizioni affettuosamente, sul punto di licenziarle e mandarle in giro a stampa, cosa che non ha avuto il piacere di fare concretamente, perché è stato portato via dalla morte prima della pubblicazione della silloge, egli dice che si tratta di “una critica letterariamente ‘sintetica’ in forma di poesia” (p. 9). Dove “critica” significa lucida consapevolezza dell’uso della parola e della scrittura, con assunzione di responsabilità totale da parte di chi parla e scrive di non potere/ dovere ripetere quanto già è venuto alla luce del sole, altrimenti si scopre l’acqua calda, ma di dover tentare di spostare anche solo di un millimetro in avanti lo stato dell’arte.
Audace e ambiziosa è la sfida che affronta Maradei, di avere incontri ravvicinati e significativi con la figura e l’opera di autori classici, moderni e contemporanei, molti dei quali di altissimo profilo, per osservarle in controluce e salvarne un riflesso, un guizzo, un frammento di cristallo, che possano diventare un acquisto di senso e di riferimento per il nostro tempo e anche per il futuro. Così, dedica a ogni autore una composizione, sempre della medesima lunghezza (trentadue versi) e della medesima articolazione (tre strofe, ognuna di dodici versi), – il tutto, quindi, si costituisce sulla cifra aurea del tre, che è numero perfetto -. Gli autori scelti sono nell’ordine: Kavafis, Hikmet, Jimenez, Baudelaire, Borges, Rimbaud, Esenin, Ezra Pound, Ungaretti, Marinetti, Campana, Neruda, Pasolini, Garcìa Lorca, Pasternak, Apollinaire, D’Annunzio, Verlaine, Gozzano, Majakovskij, Pavese, Lee Masters, Tarchetti, Blok, Prévert, Carducci, Mallarmé, Pascoli, Saba, Cardarelli, Soffici, Montale, Villon, Ferdinando Russo, Buttitta, Palazzeschi, Belli, Lucio Piccolo, Foscolo, Leopardi, Trilussa, Di Giacomo, Byron, Shelley, Quasimodo, Zanazzo, Valéry, Keats, Yeats, Lou Salomè, Rilke, Whitman, Saffo, Catullo, Teognide, Jacopone, Pessoa, Stecchetti, Breton, Pirandello, Martoglio, Nietzsche.
Tanti nomi riuniti insieme farebbero pensare a un fastoso e intrigante florilegio per innamorati della poesia. In Maradei, invece, non si riscontra alcuna vaghezza di questo genere. Gi autori evocati, infatti, sono semplicemente stazioni di sosta, non diciamo sacra, come usava nel medioevo per la rappresentazione dei misteri e dei riti religiosi, ma di esposizione alla riflessione e alla meditazione laica. Considerati nell’insieme, come devono andare considerati, perché vivono insieme all’interno di una selva di intrecci e di richiami reciproci, essi sono partiture per recita da scena.
Viene, così, fuori una contraddizione, che non è di debolezza, ma di energizzazione del lavoro poetico di Maradei. Il quale, grazie a un cesellamento della scrittura come in un laboratorio fondato sulla ricerca dell’essenziale e del latente dei personaggi chiamati alla ribalta, offre infine al lettore, o, meglio, al suo spettatore, parole rappresentate, che vengono da lontano, vanno lontano e continuano intanto a vibrare nei limpidi echi diffusi attorno. Ed è teatro di alto profilo, dove la parola e il suono attivano eventi, calandoli in forme, in epifanie di linguaggi dimenticati.
Come, ad esempio, in margine all’abito di Pirandello: “L’abito di Pirandello / è sempre grigio, / come la cenere che resta / dopo che la fiamma muore. / Peregrinazioni ancestrali / nel labyrinto del chiaroscuro, / tra bianco e nero, / tra maschere e volti. / Sguardi irrisolti: tutto si centuplica / nell’ambiguo gioco degli specchi, / tra un ghigno e una lacrima” (p. 70).
O come di fronte ai morti di Kavafis, che non sono morti, ma assenze corposamente presenti: “I morti di Kavafis / sono i miei morti, / parenti perduti / il cui sangue chiama / forte ed invano / il ritorno in famiglia. / Nessuno risponde / e la porta di legno / resta chiusa, / come gli occhi / del tempo passato, / spento e remoto” (p. 11).
Di Ugo Piscopo
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