Da Il Corriere della Sera del 25 febbraio
È un libro atroce questo di Isaia Sales, Storia dell’Italia mafiosa pubblicato dall’editore Rubbettino. Potrebbe intitolarsi anche Perché la mafia la dolorosa, appassionata e minuziosa ricerca che Sales, studioso dei poteri criminali, autore tra i più seri di libri sulla camorra e sulla mafia, ha condotto per più di tre anni.
Il nodo del libro – saggio storico, saggio politico, saggio di psicologia criminale – è la mafia vista come componente essenziale della storia d’Italia. Se si trattasse soltanto di un fenomeno delinquenziale, la mafia, in due secoli di sopravvivenza, sarebbe stata certamente sconfitta: uno Stato, soprattutto uno Stato moderno, possiede infatti tutti gli strumenti, non soltanto repressivi, per poterlo fare. E invece le mafie, nate sotto il dominio dei Borbone, prolificate nello Stato unitario, hanno seguitato e seguitano a esistere, anche se con poteri difformi nel tempo: la camorra nell’Ottocento, la mafia – Cosa nostra – nel Novecento, la ‘ndrangheta nel Duemila, quando è diventata l’organizzazione criminale più potente del mondo.
A Sales – insegna Storia delle mafie all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli ed è stato anche in politica, sottosegretario al ministero del Tesoro nel primo governo Prodi – sta soprattutto a cuore raccontare e dimostrare come le mafie siano state e siano anch’esse partecipi dell’autobiografia della nazione. Sono un problema della storia e della società italiana, non un problema di «geni», di luogo, di cultura. Oggi che la questione meridionale, intrinseca a quella criminale, non è nelle agende della politica governante, le possibilità di risolvere un problema così grave sono modeste.
Il libro è una miniera. Perché le mafie sono nate nel Sud? Non è della società meridionale, con tutte le sue debolezze, scrive Sales, la responsabilità del fenomeno. Vittima, piuttosto. La classe dirigente del Nord è stata infatti da sempre alleata con la classe dirigente siciliana che aveva come principale puntello la mafia. La struttura del latifondo ha di certo favorito il fenomeno. Ancora oggi gli eredi dei latifondisti di un tempo, principi e marchesi siciliani, si dilettano a scrivere memorie in cui, con compiaciuta naturalezza, raccontano gli incontri, a pranzo e a cena, con i capimafia un tempo al loro servizio, zu’ Peppe, per esempio, Giuseppe Genco Russo, l’allora capo della mafia siciliana.
Ma non è la terra, quella terra, la radice del male. Le mafie hanno sempre necessità, se si insediano in un certo territorio, di stabilire relazioni con uomini non di poco conto delle istituzioni locali. E ciò che hanno fatto al Centro e al Nord, protagonista la cinica legge del mercato incurante dello strascico di violenza che provoca e seguita a provocare. Non trapianto, ma ibridazione.
Secondo Sales i periodi di maggior potere delle mafie sono tre: la Sinistra storica, dopo l’Unità del Paese; il secondo dopoguerra; gli anni del berlusconismo.
A proposito della mafia la storia è illuminante: dal giorno in cui gli angloamericani sbarcarono in Sicilia, il 10 luglio 1943, e nominarono sindaci i mafiosi che li avevano aiutati a preparare l’operazione – risulta ufficialmente dalla relazione dell’Antimafia Carraro, del 1976 – a Portella della Ginestra, il primo maggio 1947. Quasi settant’anni dopo restano ancora zone nere in quel pasticcio contro la sinistra e il Partito comunista in cui furono coinvolti ministri – Scelba -, generali, capi della polizia e dei servizi segreti, uomini politici. «Banditi, mafia e polizia, siamo un corpo solo», disse il bandito Gaspare Pisciotta al processo di Viterbo del 1950-1952.
Quelle zone nere non si sono dissolte, se si analizza la carneficina degli anni Ottanta-Novanta a Palermo che costò la vita a tanti uomini dello Stato che fecero il loro dovere, dal presidente della Regione Piersanti Mattarella al generale Carlo Alberto dalla Chiesa a tanti altri, fino a Falcone e a Borsellino protagonisti del pool che approderà nel maxiprocesso del 1986.
Il libro di Sales è un desolato mosaico di vita e di morte. Ci sono stati magistrati che hanno fatto quel che dovevano e tanti loro colleghi che nei decenni hanno tradito e si sono venduti con le loro sentenze per insufficienza di prove – prove ben solide come il piombo usato -, concedendo perizie psichiatriche immotivate e firmando sentenze di assoluzione a criminali di rango. La mafia non esisteva, era tabù. Il sindaco di Palermo Martellucci, negli anni Settanta, la chiamava «la malefica tabe», il giudice Falcone, arrivato a Palermo nel 1979, disse allora (a chi scrive) che i più dei magistrati del Palazzo di giustizia ne negavano l’esistenza. Il nostro è un Paese dove il capomafia Bernardo Provenzano è stato latitante per 43 anni, il capomafia Totò Riina per 25 anni, il capomafia Matteo Messina Denaro è uccel di bosco da 23 anni.
Le compromissioni, le connessioni, gli accordi, il commercio dell’illegalità, il lasciar fare sono storia antica. Il nostro è anche il Paese dove il sette volte presidente del consiglio Andreotti, rinviato a giudizio per associazione mafiosa, non è stato assolto, come viene detto: i fatti di cui era accusato, commessi fino alla primavera 1980, sono caduti in prescrizione. E dopo? Insufficienza di prove, il 530 del Codice di procedura penale. Non certo una medaglia al valore. E di un altro presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, si sa delle origini oscure della sua ricchezza e si sa anche che ha avuto rapporti con uomini dell’alta mafia. Il famoso stalliere di Arcore, Vittorio Mangano, è stato definito da Berlusconi «un eroe»: morì in carcere senza aprir bocca. Era un mafioso di spicco, condannato a più ergastoli, tra i protagonisti, già nel 1983, della sentenza istruttoria di Falcone su «Mafia e droga», il processo contro Rosario Spatola + 119.
Dal libro di Isaia Sales, antologia ragionata e colta dei poteri criminali di ieri e di oggi – manca un indice dei nomi -, esce un panorama cupo e ben documentato sulla mafia, sui suoi rapporti con il potere politico e finanziario, sui caratteri dell’organizzazione, sociali, istituzionali, ideologici, sulla natura degli investimenti puliti e di quelli sporchi. Lo scrittore discute anche i nodi su cui si fondano tanti equivoci come il familismo, l’omertà che non è un problema antropologico, ma nasce dalla paura, dai compromessi dello Stato infedele che non tutela i cittadini onesti. La mafia non dà ricchezza sociale, ma degrado.
Sales scrive che «relegare il tutto a storia criminale è un assurdo storico. Le mafie sono parte delle modalità con cui l’Italia è diventata nazione e si è mantenuta tale nel tempo». Forse il giudizio, espresso in questo modo, è eccessivo, anche se l’autore ha ben motivato nelle sue pagine come e perché le mafie sono state parti integranti della società italiana. (Con la prima Cassa del Mezzogiorno e dopo l’82 e il ’92, lo Stato ha agito mettendo in crisi la mafia).
Resta una domanda. Le menti raffinatissime capaci di costruire una simile e complicata rete di rapporti e di conoscenze politiche ed economiche sono quelle di Riina e di Provenzano, con la loro incultura e la loro rozzezza? Ci dimentichiamo di chi, probabilmente, sta alle loro spalle, avvocati, notai, commercialisti, esperti di diritto internazionale privato, penalisti, immobiliaristi, finanzieri, uomini senza nome forse anche illustri al servizio dell’azienda dei soldi e della morte.
di Corrado Stajano
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