Da Il Venerdì di Repubblica del 16 gennaio
È un filo rosso – o, meglio sarebbe dire, nero… – che percorre le opere di Niccolò Machiavelli (1469-1527), riconducibile a quello che si potrebbe quasi considerare un «sottogenere» della filosofia politica dell’età moderna. È il tema della congiura, moneta corrente nell’Italia e nell’Europa dei tempi in cui visse il maestro cinquecentesco della dottrina del realismo politico. Al riguardo, nella sola Firenze, non c’era davvero che il (sanguinoso) imbarazzo della scelta, dalla congiura dei Pazzi (1478) a quella contro Giuliano de’ Medici (1513). Machiavelli si soffermò lungamente e diffusamente sulla questione:Delle congiure è infatti il titolo del sesto capitolo del terzo libro dei Discorsi, ma l’argomento viene affrontato anche nelle Istorie fiorentine e all’interno del Principe, come pure nei suoi testi storico-politici minori e nei carteggi diplomatico-cancellereschi.
Al punto da rendere possibile il volume Sulle congiure (Rubbettino, pp. 344, euro 18), il trattato «unitario» sulla materia che il Segretario fiorentino non ha mai scritto, e che è invece una raccolta delle sue pagine intorno a questo «format» violento e omicida di lotta politica (nata dall’idea e dalla curatela dello storico delle dottrine e politologo Alessandro Campi). Si trattava, dunque, di una sorta di (tutt’altro che) «magnifica» ossessione; cosa che segnala la centralità della problematica nel pensiero di un Machiavelli intenzionato a costruirvi sopra una teoria generale (e sistematica).
Un’antologia innovativa anche perché si pone in contrasto con l’opinione dominante nella storiografia che lo descrive come avverso, per vari motivi, all’idea stessa del congiurare.
Machiavelli scienziato politico (e teorico del razionalismo, oltre che dell’immutabilità delle passioni degli uomini) abbandona, al contrario, ogni connotazione moraleggiante (ascrivibile alle dissertazioni sul soggetto di Sallustio) per analizzare le congiure nel loro specifico contesto storico e quali manifestazioni di una tecnica di presa del potere.
Nessun indugio sulla personalità o la psicologia dei congiurati e, men che meno, su quelle dietrologie e complottismi ritornati adesso molto di moda. E neppure un atteggiamento da cronista che compilava un mero elenco di atti, e narrava una sequela di eventi. Bensì una modellistica e una fenomenologia della congiura che sgombrava il campo da qualsiasi tentazione di fare della «psicopolitica» (perché quella di cui getta le basi il pensatore fiorentino è, appunto, scienza della politica), e la distingueva dal tirannicidio e dall’assassinio per smania di potere, erigendola ad autentica categoria, come diremmo oggi, politologica. Che richiede pianificazione, segretezza (anche se non in tutti i casi), e di considerare il fatto che un elemento di imponderabilità può stare sempre in agguato. Già, perché per far andare a segno una congiura occorre anche una certa dose di fortuna (in senso machiavellico, si intende…).
Di Massimiliano Panarari
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