Sono stati numerosi i comunisti arrestati in Italia negli anni Quaranta. Trascorsi meno di venti giorni dalla Liberazione di Roma, il partigiano gappista Rosario Bentivegna fu portato in carcere per aver ucciso un ufficiale della Guardia di Finanza in uno scontro a fuoco. Nella seconda metà del decennio, arrivarono ad acquistare un rilievo statistico le catture di militanti ai quali venivano addebitati adunata sediziosa o resistenza a pubblico ufficiale, blocco stradale, reati legati a manifestazioni non autorizzate. Emanuele Macaluso, che comunista lo era diventato dopo aver avuto più tempo per leggere libri a causa di una tubercolosi a 16 anni di età, organizzava in Sicilia proteste di disoccupati. Per questo motivo fu denunciato agli Alleati da notabili che lo descrissero come nemico degli angloamericani.
Ma in prigione il giovane Emanuele, nato a Caltanissetta nel 1924, finì per altro: adulterio. Quando la dittatura fascista era al potere, Macaluso si era innamorato, ricambiato, di una donna sposata. Lei, Lina, in precedenza aveva preso marito a meno di quattordici anni e aveva avuto a quindici la prima figlia. «Caduto il fascismo, e avendo un lavoro, pensai che potesse finire anche la clandestinità del mio rapporto amoroso», ha raccontato Emanuele nel libro 50 anni nel Pci , Rubbettino editore. «Dovevo affrontare le ire dei miei genitori, ed erano notevoli, ma non sapevo che questo era il meno», ha aggiunto. Per poi osservare: «Si trattava, ecco il punto, di una unione illegale, scandalosa, intollerabile per lo Stato, per la mia famiglia, per il mio partito e soprattutto per i miei nemici politici».
Furono questi ultimi, «i gestori delle miniere, le “autorità” alle quali con la mia attività sindacale cominciavo a rompere i coglioni», secondo Macaluso, a premere sul marito di Lina, guardia comunale, affinché denunciasse la relazione. I due amanti furono rinchiusi nel carcere Malaspina. Il ragazzo rimase in cella settimane, poi ricevette sia una condanna a sei mesi e quindici giorni dalla magistratura sia una sorta di processo nel Partito comunista. Sebbene concluso da un’assoluzione, il secondo non fu leggero. Macaluso fu ritenuto inadatto per un incarico di responsabile del Fronte della Gioventù che si era profilato. È anche per quello che la sua militanza in difesa degli sfruttati rimase allora nell’ambito del sindacato, la Cgil, rinviando a più tardi le cariche nel Pci. Risoluto nel difendere la linea del partito, ma originale nel coltivare convinzioni proprie. Rispettoso delle tradizioni.
Almeno dagli anni Ottanta, tuttavia, di rado «in linea» rispetto ai segretari di Botteghe Oscure, dai quali lo distanziava l’idea, condivisa con Giorgio Napolitano, che per cambiare e governare l’Italia occorressero politiche del tutto riformiste e una collocazione occidentale. Aveva una personalità difficile da incasellare nelle principali categorie dell’antropologia comunista, Macaluso. Colto, allo stesso tempo privo di vezzi diffusi tra gli intellettuali. Duro, perfino aspro, nella polemica all’interno e all’esterno del Pci, però non privo di tatto inatteso. Quando abitava vicino alla sede del «Manifesto» in piazza del Grillo, a Roma, non rinunciò mai all’amicizia con dirigenti del gruppo, pur essendo tra quanti li avevano radiati dal partito. Prima che terminasse la sua esistenza terrena, Macaluso aveva fornito due delle chiavi più utili per analizzare uno dei fenomeni politici importanti nell’Italia del Novecento. Una si trova in alcune sue frasi pronunciate nel 2017 ai funerali di Valentino Parlato: «Penso che chi vuole capire meglio che cosa è stato il comunismo italiano – ripeto: italiano – lo può fare solo attraverso la biografia delle persone. Le persone che hanno popolato questo grande alveo che è stato il comunismo italiano. E sono biografie molto, ma molto diverse».
Macaluso indicò come esempi le storie personali di Antonio Gramsci, del sindacalista di popolo Giuseppe Di Vittorio, del suo successore Bruno Trentin, figlio di un intellettuale del Partito d’Azione, di un’operaia come Teresa Noce e dell’universitaria cattolica Nilde Iotti. Anche se non lo specificò, la seconda chiave interpretativa si attagliava perfettamente alla propria, di persona: «Perché è avvenuto? La ribellione è stata la molla del comunismo italiano. Il fatto di non accettare l’esistente, di pensare che l’esistente poteva essere cambiato e che per cambiarlo bisognava organizzarsi, che per organizzarsi si doveva stare insieme e che per ribellarsi non bastava la ribellione dove vivevano, ma che bisognava ricollegarsi non solo nazionalmente. Nel mondo». Se non fosse stato uno dei dirigenti che presero le distanze con chiarezza, seppure tardivamente, dall’Unione Sovietica, potrebbero apparire affermazioni monche. Non lo sono.
A parlare era uno che i sovietici, durante e dopo la segreteria di Enrico Berlinguer, tenevano d’occhio, come avveniva a Napolitano e a Carlo Galluzzi. «Macaluso aveva avuto una relazione duratura con una signora. Egli la incontrava in una villa e ha veleggiato con lei nel Mediterraneo», riferiva a ufficiali del Kgb con stile guardonesco uno dei rapporti Impedian trasmessi ai servizi segreti britannici dall’archivista sovietico Vasilij Mitrokhin. Un frammento quasi da rotocalco in mezzo a bassezze denigratorie. Verso un dirigente politico razionale, e molto, ma un ribelle per il quale sentimenti e ideali erano tutt’ altro che accessori.
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