“I diritti umani stanno diventando una religione secolare” (p. 13). Troviamo questo efficace aforisma nell’ultimo lavoro di Vittorio Possenti, già ordinario di Filosofia politica all’Università Ca’ Foscari di Venezia, dal titolo: “Diritti umani. L’età delle pretese” (Rubbettino, 2017). L’agile volumetto – la cui unica pecca è presente in sole tre righe in cui registriamo un atteggiamento di favore verso il riconoscimento giuridico di diritti e doveri delle convivenze omosessuali (146) – dimostra come sia necessario oggi più che mai fondare la teoria dei diritti umani sulla legge naturale e dunque sulla natura umana (30, 55-73). In tal modo si giustificherebbe l’asserto che la persona precede lo Stato e permetterebbe alla prima di non essere asservita al secondo (24).
La questione è quindi eminentemente antropologica. Quale è lo sguardo che posiamo sull’essere umano? Se lo consideriamo, come insegna la filosofia classica e quella tomista, come sinolo di materia e forma, come un’anima razionale che informa il corpo allora la persona umana non è solo titolare di diritti, bensì e prima di doveri. Le inclinazioni naturali infatti indicano alla ragione alcuni beni: vita, salute, verità, socialità, etc. Queste inclinazioni in prima battuta generano doveri (40): se la vita è un bene dovrò tutelarla e non dovrò uccidere, né togliermi la vita; se la verità è un bene dovrò crescere nella conoscenza ed evitare di rimanere nell’ignoranza e così via. E’ dal dovere che germina il diritto perché se io, come abbiamo visto, ho il dovere di non uccidere Tizio, ciò significa che Tizio ha il diritto a vivere (96, 98). Possenti cita Giovanni Paolo II: “E’ il dovere che stabilisce l’ambito entro il quale i diritti devono contenersi per non trasformarsi nell’esercizio dell’arbitrio” (Messaggio per la Giornata mondiale per la pace, 1 gennaio 2003).
Ma se invece, occultando qualsiasi principio metafisico, intendiamo l’uomo solo composto di materia, l’uomo sarà unicamente il suo corpo, i suoi sensi, i suoi desideri, i suoi istinti. E’ la lezione di David Hume (1711-1776) il filosofo scozzese che individuava nel motivo principe d’azione la soddisfazione dei piaceri e dell’utile e a specchio il rifuggire dal dolore e da ogni danno. Ragione e volontà devono meramente piegarsi agli istinti e agli impulsi. In modo analogo Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) si esprime nell’ “Emilio” dove afferma che l’uomo è libero quando “non vuole se non ciò che può e fa se non ciò che gli piace”.
Questa è la visione antropologica ferina che oggi va per la maggiore: l’animale-uomo è portato a soddisfare tutti i suoi impulsi (a margine: se la persona umana è animale anche gli altri animali sono persone titolari di diritti). L’uomo da immagine di Dio si deturpa nell’immagine della bestia (76) e nella dimensione maiuscola la Bestia attua il suo piano luciferino di sovvertimento dell’ordine divino. L’animale-uomo non è mai parco delle sue voglie e così il novero delle pretese, delle libertà senza limiti, cioè assolute, sfocia di necessità nell’ipertrofia dei diritti (122), agevolata dalla tecnica (154, 161), vedi fecondazione artificiale, sperimentazione su embrioni, etc. Questa dinamica conduce al “diritto di avere diritti” (145): una porta spalancata sull’infinito perché non limitata dai doveri. Dall’umano all’onnipotenza (162).
E dunque i desideri e i sentimenti (dal latino “sensus”) vengono elevati a diritti (9, 127): vedi aborto, fecondazione artificiale, eutanasia e “matrimoni” omosessuali. Scompare la categoria dei doveri (48): quale animale ha l’onere di obblighi morali? L’homo homini lupus è solo centro di imputazione di pretese (la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 non indica nessun dovere e quella dell’Onu 1948 un solo obbligo sociale). Il centro dei diritti diventa non il bene oggettivo, bensì l’arbitrio, la libertà fine a se stessa, l’autodeterminazione. La fonte dei diritti non è più il dovere, ma la volontà. Per il solo fatto di volere una cosa, quella cosa deve diventare diritto anche agli occhi dello Stato: il diritto genera il dovere.
Ne consegue che se, come appuntava Thomas Hobbes (1588-1679), tutti vogliono tutto è guerra totale e permanente dove ognuno combatte solo per se stesso. Possenti usa l’espressione efficacissima di “propensione insulare” dell’uomo (uomo come isola). Come risolvere questo conflitto permanente? In un modo: vince il più forte, il più potente (87). Ecco perché la donna ha il diritto di abortire, le coppie di adulti hanno il diritto ad avere un bambino in provetta, i genitori e i tutori in Olanda, in Belgio e presto anche da noi hanno il diritto di uccidere il figlio già nato o l’incapace con l’eutanasia, perché sono più forti del nascituro, del minore, dell’interdetto e del malato. Il diritto diventa potenza. E dunque ecco i diritti pattizi, convenzionali apparentemente nati per risolvere il conflitto (93, 102), ma in realtà voluti per tutelare il più forte e conservarlo nel suo status di oppressore. La democrazia diventa la maggioranza dei potenti: solo loro hanno il potere belluino di sedere al tavolo dove si decidono le regole della convivenza. “Auctoritas, non veritas facit legem” (l’autorità e non la verità fa la legge), dichiara Hobbes. Da qui i principi non negoziabili assumono le logori vesti di beni oggetto di contratto in cui a decidere è sempre chi ha il coltello dalla parte del manico.
Questa argomentazione per assonanza concettuale richiama l’espressione “bilanciamento degli interessi”, usata tante volte dalla giurisprudenza in materia di aborto e fecondazione artificiale in cui la realtà che vede il bene “vita” pesare di più che i desideri degli adulti è stravolta dal giudice che non tiene al centro la bilancia della giustizia lasciando che i piatti della stessa trovino da sé una naturale equilibro, bensì, barando, preme su uno di essi. Non bilanciamento, bensì prevaricazione (140). Il diritto allora scolora nell’ingiustizia verso l’altro proprio perché la categoria del dovuto è evaporata (14): una libertà sganciata dalla giustizia (85) – dare a ciascuno il suo – che a approderà in Hans Kelsen (1881-1973) alla divaricazione tra diritto e giustizia (86). Non più iussum quia iustum (comandato perché giusto) bensì iustum quia iussum (giusto perché comandato). Ed invece “il primato spetta al suum [al “suo” in quanto dovuto] non alla libertà” (86).
In definitiva i diritti umani da argine contro lo strapotere dello Stato totalitario sono diventati pretese dell’individuo totalitario a cui lo Stato deve piegarsi per soddisfarli (13). Da qui la giurispotenza, la giuscrazia, la tecnocrazia di legislatori e giudici armati di sentenze e norme acuminate da usare contro i più inermi i quali si possono solo difendere, inutilmente, sventolando il vessillo dei doveri. Dalla forza del diritto che riconosce il dovuto morale al diritto di chi usa la forza per non riconoscere il dovuto al più debole. Dall’età dei diritti all’età degli sconfitti.
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