Di domani non so, non oso immaginare, oggi è un giorno che si ripete e sembra non finire. Ieri era tanto tempo fa. Ci penso senza soddisfazione, senza aspettative.
stinti e consunti i teli tessuti a telaio
dalle donne di casa d’altre età
schermano le finestre.
Filigrane di lana da greggi sempre in viaggio
memore di un vagare in giovani giornate
guardo il mondo com’è
di meraviglie, tragico e infame
belligerante, sublime
Immoto l’intorno, sommesso fragore del tempo
in generica località di montagna
eppure c’era un paese, qui, antico, costruito sulla roccia tra due fiumi, sullo scoglio dell’Archetta. Sassi, piagne e legno di castagno, cerro, faggio. Archi e volte. Funzionale ed austero in ambiente aspro. Ben difeso all’esterno e spazioso all’interno, predisposto al transito e stazionamento di animali e merci caricate a soma. Ogni casa un’aia esposta a sud, indispensabile per il lavoro e la buona compagnia. Intorno orti, coltivi terrazzati, prati pascolo, alberi da frutto e, lontani, i boschi. Una ragnatela di mulattiere selciate.
Ben abitato. Famiglie in salda rete parentale, gente rude, fiera, avvezza a guadagnarsi il pane e il companatico con fatica, padrona del proprio tempo e nelle mani il proprio destino. Sconosciute la servitù, la mezzadria, la fame, l’inedia. Anche poveri, per avverse fortune, per disgrazia, malattia, per malevolenza e vizi. Una piccola comunità determinata dalla storia – gli antichi popoli che l’hanno forgiata – e dalla geografia: a ridosso di un valico tra il piano padano e le coste del Tirreno, a guardia di una strada non carrozzabile ma indispensabile ai commerci, sempre frequentata fino alla rivoluzione industriale. Poi il mondo è cambiato, irrimediabilmente, ma tenaci, ben allevati e motivati abbiamo continuato a viverci. È casa nostra, il nostro orizzonte.
È passato l’Empire français napoleonico e ci ha lasciato un cippo di confine sul crinale e il cimitero fuori dal paese, a norma di Codice Civile. Fino ad allora, retaggio longobardo in civiltà cristiana, i morti si seppellivano in Chiesa, nella cripta, o a ridosso del muro esterno. Uno spazio esiguo che i morti si accontentano di poco e quel poco è presto libero, riutilizzabile in continua mescolanza di sangue, terra e ossa. Ai morti serve lo spazio mentale dei viventi per poter cementare e rinnovare l’esser famiglie, comunità, in chi resta. I morti poi necessitano di preghiere a suffragio così che, incatenando il passato al futuro, il presente possa essere governato.
È arrivata l’Unita d’Italia e si è stabilizzata, ci ha portato: la strada statale e non abbiamo permesso che attraversasse il paese, la leva militare, la scuola elementare, la grande guerra, il Fascismo come manifestazione della modernità: progresso e doveri; la seconda grande guerra e l’occupazione tedesca, una fulminea ed esigua Resistenza su cui si sarebbe costruito il mito della Liberazione come seconda manifestazione della modernità: progresso e diritti, a seguire il boom economico, lo sviluppo industriale, l’abbandono delle terre alte. Un po’ di turismo, un po’ di ideologia ecologica spolverata sul terziario ed ecco i Parchi come manifestazione della post modernità. Misteriche aspettative da connessione in banda larga, la sorpresa della pandemia. Ciao belli, ciao.
Per qualche decennio l’abbondanza di morti ci ha permesso, oltre ogni ragionevole realismo, di continuare a credere vivo il paese. Poi i morti hanno cominciato a scarseggiare, poi sono stati vietati i funerali e chiusi i cimiteri. Anche la chiesa che comunque è quasi sempre chiusa. Moriremo tutti, i pochi rimasti, sarà un morire soli, solo per noi stessi, una svelta cerimonia anonima in generica località. Un leggero disturbo al traffico se a ridosso di qualche festività.
È in libreria, da inizio estate: “L’ultima transumanza – Dagli Appennini appunti per il domani” Rubbettino Editore, l’ha scritto Maurizio Sentieri, paesano, amico, ci conosciamo da sempre. È nato a Genova dove i suoi genitori, dopo il matrimonio, si sono trasferiti in cerca di una nuova vita oltre l’orizzonte appenninico, lontano dai ritmi della pastorizia. È un biologo nutrizionista, docente di scienza e cultura dell’alimentazione, vive nel ponente ligure. Il paese non l’ha mai vissuto, non l’ha mai nemmeno abbandonato. Si è tenuto casa, ristrutturandola con garbo a nuove esigenze funzionali ed estetiche. Col passare degli anni sono aumentate le sue visite, le soste, il piacere del fuori stagione. Anche le sue figlie crescono lontano senza rinnegare il paese. Posso considerarlo il rappresentante colto e responsabile di quella “quota bulgara”, molto più che maggioritaria, degli abitanti/non residenti i borghi e i paesi dell’Appennino.
Li ho sempre creduti ininfluenti circa le tristi e regressive sorti delle terre alte, è davvero così?
Fossero loro gli eredi, i vincitori nella dinamica evolutiva? L’abbandono non toglie legittimità e lo sguardo da lontano se non può cogliere la complessità del reale forse lascia intravedere l’inutilità di tanto affannarsi per cosa? I parchi? Aree MAB UNESCO?
Sono le seconde case, anche terze, il destino dei monti?
La “cittadinanza” montana perfetta sta diventando quella affettiva che gode nel ristoro rigenerante di una natura impacchettata in offerte, delegando a nuove sovrastrutture politiche i modi e i tempi di fruizione di aree protette, salubri, sotto l’egida della scienza con manovalanza tecnica. Transumano dalle città gli umani, in vacanza. Di ciò che fu restano i cani.
Tutte le razze, le tipologie, a passeggio. La mattina presto spicci e furtivi di necessità, sul far della sera e dopocena pomposi e plateali come sul red carpet, al guinzaglio.
Lo sguardo di Maurizio è lucido, anche tagliente. Esperienziale, supportato da vasta cultura. L’ho letto con foga sorridendo spesso poi riletto lento, sempre con piacere, evidenziando i “distinguo”. “Per sorte e per fortuna. Le riflessioni su Zavattini e il paese. A guardia dei giorni. Generazione Alzheimer, con sussurri. Appennini e Dostoevskij. Etica ed estetica. Andare. Caffè. Argo e altri cani…” ”ridurre il cane ad animale da salotto può essere oltraggio che si fa all’essere vivente e a se stessi.” Molto ci accomuna, per molti versi, siamo pur sempre progenie anche se non sappiamo più di chi e cosa. I capitoli più autobiografici sono di una intensità struggente: “In vita e in morte di un paese. Eros e giulebbe. Case famiglie e design. Terremoti e consolazioni. In nome omen. Premonizioni. Favole e musica….”
Bello, utile e necessario per chi ha a cuore il vivere sui monti. Se ancora esistessimo come paese lo proporrei per una pubblica lettura: un capitolo a sera, nel seccatoio acceso, tra novembre e dicembre. A seguire: conversazione. Potrebbe segnare l’insorgere di un sistema di autoanalisi nelle dinamiche di buon vicinato. Troveremmo adepti anche da lontano.
Poi ci sono i capitoli della discordia, molto interessanti, proficui. Non è una critica, è una constatazione, l’accettazione di una diversità d’esperienza, di attitudine, che sedimentano sguardi diversi, a volte complementari a volte contrastanti anche escludenti. Casa d’altri su tutti. Qui si evidenzia, come limite strutturale, la parzialità di uno sguardo non estraneo ma esterno: il paese non è riducibile al transumare che ne è stata componente vitale ma subordinata e storicizzabile. Un di più determinato da un sapiente uso del territorio e della forza lavoro. Un fattore di benessere non solo materiale: il viaggio come spazio vitale fa molto bene, al corpo al cuore alla mente, ma in questo il testo è più che convincente.
La transumanza è un lungo ciclo iniziato in epoca matildica, nostro apice storico. Mantova e Grosseto, i confini del regno, le direttive del nostro transumare. Solo alla fine del ciclo, nel generale impoverimento materiale e ideale del XX secolo diventa centrale e trainante un’economia sempre più asfittica. C’è stato ben altro a ridosso di questo valico diventato presto un confine su una rotta commerciale risalente agli Etruschi, già pista per cacciatori/raccoglitori della preistoria. Venezia per secoli è stato nome usuale e ricorrente in questo paese e c’è stato un tempo in cui le donne pretendevano, nei casament, almeno un pavimento in gesso alla moda veneziana.
Le Ferriere, nella valle di Rioarbero, fianco la nostra poco più di un tiro di schioppo, segnano gli albori dell’industria metallurgica ma non mutano le fondamenta del nostro vivere: una agricoltura non redditizia ma indispensabile alla sopravvivenza, l’allevamento del bestiame, non solo pecore che necessitano di transumare ma anche mucche e poi asini muli cavalli, per la forza lavoro, i trasporti, l’utilizzo bellico. Ci sono i boschi, la legna, il carbone, le lizze e i parati destinati alle cave Apuane. I castagneti, altro lascito matildico sono ricchezza e vanto. Si lavora il sasso e si producono piagne per le coperture dei tetti. Bisogna tessere lana e canapa, conciare le pelli. Ci sono valenti cacciatori. Bisogna far di tutto e saperlo fare al meglio.
Ci sono le famiglie da cui tutto nasce, che tutto sorreggono e vanno sorrette. C’è il tempo della semina e quello del raccolto, c’è il tempo del mulino, e quello del maiale… dodici mesi l’anno e c’è sempre da fare. Poi ci sono le greggi, campano viaggiando giù e su dalla Maremma, raro e soprattutto negli ultimi tempi verso Mantova, sul Po. Non tutte le famiglie hanno un gregge, chi lo possiede deve avere forza lavoro giovane, in salute. Le donne non viaggiano volentieri, possono farlo da ragazze, da giovani spose ma poi arriva il tempo di fermarsi, a casa. Con i vecchi, i bimbi, i malati e tutti quelli che tengono vivo e produttivo il paese. Ci sono le stalle piene di mucche, qualche capra, asini muli cavalli. Non sono mondi separati, c’è sempre un gran via vai. Ci sono le fiere, i mercati, le feste religiose, le disgrazie e le gioie da condividere. Ci sono i garzoni, quasi sempre apprendisti giovani e giovanissimi, in duro sistema educativo parentale, ma tutto ruota attorno la casa e il paese in una costante tensione che regge ogni disagio, ogni disgrazia.
La transumanza salvaguarda, fortifica, rende economicamente, ma non basta a sé. Non per noi. “caséi” è un termine pieno di sfumature varianti nelle diverse età del vivere.
Luca Sentieri, nipote di Zavattini, con sua moglie Gloria Cecchinato, architetti con un curriculum invidiabile tanto in Italia che in Germania, partendo dalla prima mappatura catastale e lavorando su rilevazioni, vecchie foto e ogni materiale recuperabile, si stanno dedicando alla ricostruzione del paese di cui non sappiamo più. Ne faranno un plastico, per la nostra incredulità.
Si lavora per cancellazione, ricerca e ripristino, ne sono rimasto affascinato ed ora il mio sguardo si compiace consapevole in nuove prospettive e focalizzazioni. Ma è come l’avessi sempre saputo, in modo confuso, a intermittenza. Ne ho cercato e seguito tracce in tutta la mia vita, per la prima volta ho trovato conferme oltre ogni mia aspettativa. Fortificato, di cuore ringrazio.
“Casa d’altri” segna la massima lontananza, tra lo sguardo di Maurizio e il mio, nel nostro porci al cospetto di una storicità sempre più velata da nuovi manufatti e vecchi pregiudizi modernisti. Mi piace che sia un testo letterario a rimarcare la differenza. In bassezze umane, caratteriali e malvolenti, si è già dato a sufficienza, in paese, anche nel solo tempo di nostra vita.
È la tragicità del vivere, il baratro della solitudine non illuminata dallo spirito, la caducità della carne, il dolore che opprime, la sofferenza che annichilisce, l’inconsistenza dell’uomo fronte al mistero che lo avvolge. Casa d’altri è la tristezza senza inizio e senza fine, cosmica, travalica i protagonisti, gli accadimenti e lo sfondo. Io l’ho percepita. Il paese della mia infanzia la conteneva e, in qualche strano modo, la venerava, come potenza a cui chinare il capo per poter proseguire il cammino. Le vedo ancora, in pomeriggi grigio cenere di nuvole basse, attorno la finestra per sapere chi passa, una penombra illuminata da guizzi di vampate nella stufa: la Madé, mia nonna, la Cleofe, nonna di Maurizio, l’Angé, nostra vicina di casa in case quasi attaccate, sferruzzare e tenere il conto delle disgrazie. Contemplare il male. Non che non conoscessero la gioia, anche irruente, la festa, la vitalità anche sfrenata, il piacere. Semplicemente del vivere facevano saggezza. Glielo consentiva l’età, l’esperienza, il ruolo famigliare. Ne erano costrette.
Le vecchie donne, in paese, governavano la vita. Chi avrebbe potuto far di meglio?
Mi rivedo adolescente, con Irio Massimo Romaldo Luciano Norino, tutti gli anni, attorno i giorni dei Morti andavamo un dopocena a mangiare le castagne da Vitór. Spavaldi ci facevamo coraggio poi salivamo la scala esterna in sasso, pericolante, ed entravamo in una grande stanza, una luce fioca attorno la stufa, un tavolo già in penombra e qualche seggiola, ombre scure di qualche cassapanca alle pareti, attenti a dove mettevamo i piedi, c’era da ritrovarsi nella stalla di sotto. La casa ancora imponente certificava tempi benestanti e adesso stava crollando. Vitór era un bel tipo strambo, silenzioso, timido, gentile di modi, di una bontà disarmante e di una povertà assoluta ma non pativa la fame ed era in salute. Lo rispettavamo. Andarlo a trovare era come immergersi in una tristezza infinita. Lui possedeva una dignità che la travalicava.
La Madé, la Cleofe, l’Angé, Vitór, è come se li avessi ritrovati, in prima lettura con grande stupore, nel testo di Silvio d’Arzo (traduzione dello pseudonimo: colui che, di Reggio, viene dalle selve). È un grande onore, per chi nelle selve continua a vivere almeno col cuore, che il suo libro più bello abbia come sfondo un paese trasfigurato che è indubbiamente il nostro, probabilmente mai visto se non come visione allucinata di un esilio forzato, di uno sradicamento dalla propria storia.
In giorni tristi, che sono tanti. Lividi e violacei. Gelidi, di ghiaccio.
Anche su Atei o Santi non mi trovo d’accordo ma è un lungo discorso, perfetto per una veglia, anche per un convegno un po’ palloso, non riducibile a poche righe. Succinto prologo. L’ateismo è una dimensione della modernità, conseguente l’invenzione della stampa. La religiosità è un sentimento naturale, primitivo, universale, presupposto di qualsiasi cultura, socialità storica. La santità non credo abbia mai abbondato su questi monti: San Pellegrino in Alpe e San Colombano a Bobbio, che abbiamo venerato per oltre un millennio e sono i due poli geografici del nostro Appennino, venivano da fuori, dall’Inghilterra e dall’Irlanda, erano di passaggio.
Siamo (dovrei dire: siamo stati che ora siamo niente ma mi concedo licenza poetica) cristiani, di rito cattolico romano. Siamo i barbari, convertiti, peccatori e penitenti. In un mondo sanguigno, carnale, crudele e spietato solo l’Incarnazione poteva commuoverci: la Madre col bambino. Così come solo Passione Morte Resurrezione potevano convertirci. Per meno ci saremmo accontentati di ciò che avevamo. Non eravamo sprovvisti di Dei e relative liturgie, di potenze, di misteri e di poteri. Non eravamo gli Ebrei dell’Alleanza, per quanto un po’ di sangue ebraico dovremmo ormai averlo tutti. Non i “gentili” che il pensiero filosofico greco–romano ci ha solo sfiorato mentre le legioni ci massacravano o deportavano. Oh! Madre mia, la civiltà! Noi siamo i barbari, nostri progenitori i Liguri. I Longobardi infeudando queste valli hanno dato forma ad un mondo materiale e spirituale che, in paese, è stato scalzato dalla strada asfaltata e dalla televisione. Era un pezzo, tra tanti, della Cristianità d’Occidente. I nati come noi negli anni ‘50 l’hanno intravisto, odorato, camminato, calpestato, seppure già allo stremo e qualcuno ne è rimasto impregnato. Travolto dalla nascita d’Italia, dopo un secolo di decadenza, sovraffollamento, impoverimento, abbandono, quel mondo è schiantato negli anni ‘60. Noi siamo cresciuti in quello schianto.
Così vanno le cose, così devono andare.
E si arriva a “Breve storia di un campo… la Ckina…” mi sono commosso come davanti certe sequenze cinematografiche in cui tutto è perfetto: il taglio, i tempi, le inquadrature, e la colonna sonora ti fa sobbalzare “…saranno i prossimi anni a raccontare se e come…”
rattrappito vorrei sprofondare
stolti, per fede mal riposta
volevamo pensare fossero vagiti
i respiri affannati di questi pochi anni
a rammendare trame tra montagne.
Erano rantoli, sono cessati
un click, una pagina Facebook, la conta dei like
cocktails in condominio destrutturato
AFFITTASI uso vacanza
bio-sferico MAB in tutela UNESCO
immunità di gregge in assenza di pascolo.
Non è necessario perdere una guerra
per trovarsi sconfitti
reclusi in domestica enclave
divino sarcasmo ortodosso
nell’anno dello spaesamento
rose a grappoli, sontuose
all’alba topi e merli satolli
nelle aie e nelle strade, baldanzosi
la notte cinghiali a grufolare tra le case
Requiem in gloria per chi fu. Cari estinti.
Ferretti Lindo Giovanni
generica località di montagna detta: al Pont, fine estate
A.D. MMXXI pandemico secondo.