Stregata dal fascino di Roosevelt, nel 1934 la donna tenta, in via personale, una missione per avvicinare Roma e Washington, nella speranza di sottrarre l’Italia dall’influenza tedesca. Ma nonostante i buoni rapporti con il presidente statunitense, il suo viaggio fu un fiasco.
Al di là della finalità dichiarata a posteriori, il viaggio americano della Sarfatti – pur motivato da una profonda curiosità intellettuale – ne assunse anche una politica. Vuole sondare la possibilità che la simpatia di Roosevelt per il fascismo possa evolversi in un rapporto politico e sottrarre l’Italia alla paventata alleanza con la Germania. È essenzialmente una sua idea, non il frutto di un incarico affidatogli nel quadro di quella diplomazia “parallela” e sotterranea che pure era nelle corde del “capo”.
In questo senso il viaggio fu fallimentare. La simpatia di Roosevelt si fermava di fronte al carattere dittatoriale del fascismo. Tuttavia la Sarfatti prova a svolgere in proprio una missione di “avvicinamento”.
Grazie ai rapporti amicali stretti già in Italia con il cugino del presidente, Theodore Roosevelt junior, Margherita viene ricevuta alla Casa Bianca con tutti gli onori, nel pomeriggio del 15 aprile. Come hanno ricostruito i suoi biografi americani, «alle cinque […] Margherita fu fatta accomodare. Entrò in un salotto e fu accolta dal presidente, da Eleanor Roosevelt, dal figlio James e dalla moglie. L’ambasciatore americano a Roma, Breckinridge Long, aveva scritto al presidente che Margherita era probabilmente “la donna meglio informata d’Italia”, una donna che conosceva intimamente il pensiero di Mussolini. Roosevelt si era perciò preparato al compito».
Ma «i commenti di Eleanor sull’Italia non furono dei più diplomatici. […] sembra che la first lady facesse una serie di commenti imbarazzanti sulla natura del fascismo e della dittatura mussoliniana. Margherita fu sollevata quando il presidente, con grande tatto, rettificò le affermazioni della moglie e portò il discorso su altre questioni». Essenzialmente sugli strumenti economici adottati per superare la depressione.
La Sarfatti subisce il fascino di Roosevelt. E lo ricorderà, vent’anni dopo, in Acqua passata, ma – come vedremo – senza particolare entusiasmo.
Il sorriso – scrive per ora − è l’arma della sua cordialità pensosa. Alla tavola da tè, nella sua ristretta cerchia famigliare, ebbi l’impressione di una forza “gentile”, quietamente disciplinata, molto duttile, pronta a piegarsi senza frangersi, come temprato d’acciaio. Meglio, come l’acqua, che pare il più docile, ed è il più incompressibile fra gli elementi. Maravigliosa quantità e qualità di cose egli sa; coltura di gentiluomo, non superficiale, ma non aggressiva come la incivile coltura del pedante. Le nozioni e le idee, che ebbi il piacere di sentigli esporre con signorilità confidenziale mi apparvero improntate all’originale buon senso di chi ha molto studiato, molto veduto e ancor più riflettuto.
Non per caso, «l’America adora il suo “F.D.”, anche come malato che vince la malattia a forza di pluck, intrepida eleganza». In Acqua passata ricorderà: «Uscii dal lungo colloquio alla Casa Bianca come da un euforico bagno di fiducia, di speranze, di fede, e, sì, anche di carità. Ogni volta che poi lo vidi, Franklin Delano Roosevelt rinnovò in me quel benefico sortilegio».
Nonostante questo – e forse per il fallimento della sua iniziativa – la Sarfatti non manca di evidenziare quelli che considera i limiti e gli errori del New Deal, peraltro spiegabili anche con la mentalità americana, che ne ha impedito un’evoluzione in senso dittatoriale. In fondo il New Deal le appare come una imitazione timida, troppo prudente, del fascismo.
Wilson per via della guerra; Franklin Roosevelt per via della crisi, accrebbero con l’autorità della loro persona i poteri dittatoriali della carica. Oggi più che mai – riconosce − il processo continua, con le severe misure di polizia e di legge criminale unitaria, attuate dal Presidente perché i delinquenti non sfuggano alla rete della giustizia attraverso le maglie larghe delle frontiere, tra polizie autonome. E si estende al campo del denaro, tabù sin qui inviolabile della democrazia, della plutocrazia e dell’industria libera, attraverso il New-Deal di Roosevelt. L’economia programmata e accentrata nella N.R.A., il National Recovery Act, potere nuovo, degno di molta considerazione, se non altro come esperimento, sembrò morto. Ma Roosevelt con dolce ostinazione, e le circostanze con ferrea tenacia, gli risusciteranno un altro volto.
D’altra parte, «non vi è dubbio che molta forza del carattere americano è dovuta al frontierismo». «L’America è progressiva, espansiva, mobile e persino instabile; ma, se pur muta modi e lato, mantiene sempre volontà, fede e ottimismo indomabile di procedere oltre, sempre più innanzi». Ma – rileva la Sarfatti − «oggi la frontiera non esiste più, l’ottimismo è in ribasso». Nonostante Roosevelt, i segnali della crisi sono evidenti.