dall’Avvenire del 27 Giugno
Nonostante sia esplosa soprattutto nell’ultimo ventennio, la critica ai partiti ha accompagnato in Italia l’intera storia repubblicana. Lo stesso termine “partitocrazia” venne infatti coniato probabilmente già nel 1944, e da quel momento entrò stabilmente nel lessico politico. Nella loro polemica i critici sostenevano – non senza ragioni- che l’ingresso sulla scena dei grandi partiti di massa avesse alterato sostanzialmente la logica del sistema rappresentativo. E se talvolta rimpiangevano i tempi della rappresentanza individuale, spesso rintracciavano nel sistema britannico, fondato sul collegio uninominale e su un saldo bipartitismo, i tratti di un modello virtuoso, capace di opporsi alle tendenze più deleterie della “democrazia dei partiti”. L’immagine di Westminster che tornava in quelle analisi era però quantomeno idealizzata. A ben guardare anche il Parlamento britannico non era immune da molte degenerazioni. E da questo punto di vista è molto interessante rileggere oggi Partitocrazia, un saggio scritto nel 1911 da Hilaire Belloc e Cecil E. Chesterton, ora tradotto per la prima volta in italiano. Il pamphlet nasceva dall’esperienza di deputato liberale di Belloc. Eletto alla Camera dei Comuni nel 1906, Belloc aveva avuto modo di conoscere in prima persona le dinamiche del sistema politico. E proprio la disillusione lo indusse a scrivere insieme a Chesterton (il fratello minore di Gilbert K.) un vibrante attacco contro il “sistema dei partiti”. La loro critica in sostanza puntava a mettere in luce come le riforme che avevano esteso il diritto di voto non avessero affatto concesso maggior potere al popolo. Al contrario, in Parlamento si era formata una vera e propria oligarchia, cui si poteva accedere solo per cooptazione.
Le motivazioni storiche erano soprattutto due. In primo luogo, il passaggio al sistema del “governo di gabinetto” aveva condotto a una sorta di “fusione” del potere legislativo con il potere esecutivo. E per questo il governo riusciva di fatto a tenere in pugno il Parlamento, riducendo notevolmente l’autonomia dei singoli deputati. In secondo luogo, a livello sociale lo scontro fra grandi proprietari terrieri e nuovi ceti mercantili si era concluso con la vittoria di questi ultimi. Venute meno le basi del vecchio dualismo di tories e whigs, si era allora formata «una plutocrazia non più divisa ma unita», che deteneva tutto il potere politico ed economico. Dietro la facciata di un apparente bipartitismo si celava così nella realtà un’unica “corporazione oligarchica”, tenuta insieme da interessi comuni e legami di parentela. Più che verso i partiti, la polemica di Belloc e Chesterton si indirizzava dunque verso gli effetti che la concentrazione della ricchezza aveva prodotto sul sistema britannico. E d’altronde proprio per contrastare la formazione di oligopoli privati e promuovere la piccola proprietà, Belloc teorizzò il “distributismo”, una visione economica ispirata alla dottrina sociale cattolica. Oltre a fornire una formidabile descrizione della realtà del party system britannico dei primi del Novecento, il volumetto può servire anche per accostarsi alla odierna crisi dei partiti. Belloc e Chesterton prendevano in effetti in considerazione molti degli strumenti che anche oggi sono indicati come possibili correttivi, dalla modifica del sistema elettorale all’introduzione delle primarie. Ma non cedevano alla seduzione delle soluzioni semplicistiche. Ai loro occhi il primo passo verso ogni riforma rimaneva infatti solo una reale “educazione politica alla democrazia”. E così – con un monito che dopo un secolo conserva tutta la propria forza – nelle pagine conclusive scrivevano: «Qualsiasi cambiamento del sistema politico rimarrà senza effetto o addirittura impossibile, se la coscienza politica del popolo non verrà risvegliata tanto da far prevalere la sua volontà».
di Damiano Palano
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