È finita come era prevedibile: balli e abbracci da un lato della Manica e, se non proprio lacrime, quantomeno meno tristezza a profusione dall’altro. Dispiace ai britannici non essere più in Europa? A parte qualcuno, per motivi non proprio sentimentali e culturali, il resto se ne frega altamente. Ve li ricordate, anni fa, quando all’atto di partire per l’Isola dicevano “Andiamo in Europa”? Con lo stesso spirito con cui si va in un Parco giochi. Era per loro, e tale è rimasta, una regione esotica o poco meno, neppure comparabile all’austero gotico britannico, al rude ruralismo scozzese, alla sobrietà perfino un po’ tetra di un certo modo di vivere.
Ci abbiamo messo del tempo, ma soltanto in Inghilterra potevano nascere i Beatles ed i Rolling Stones. Come reazione al puritanesimo (ma mica tanto) dell’anglicanesimo che puzza di teste mozzate e di ribellioni capricciose.
A parte la considerazione per l’Italia (in particolare la campagna toscana), i vini e la cucina francese, i britannici non sopportavano proprio che quando attraversavano quel braccio di mare dovevano mettersi alla guida dell’automobile a destra e regolare l’orologio diversamente. Quanto alla moneta, guai chi gliela toccava o gliela tocca ancora oggi, l’augusta sterlina sulla quale è effigiata una regina con sessant’anni di meno. Un simbolo di vitalità. Assai caro a giudicare quel che ci compri.
Si può scambiare l’euro a Tokyo o a Pechino a Oakland, ma non a Londra dove se ti azzardi a pagare con la “nostra” banconota rischi improperi senza fine.
No, se ne vanno contenti di andarsene. Anche quelli che erano per il remain dopotutto hanno accettato lo stato di fatto. E mai si è visto in un Parlamento, nello specifico quello europeo, deputati che torneranno a casa felici dopo aver goduto soltanto per pochi mesi il brivido di soggiornare in una città noiosamente bellissima come Bruxelles. Avete ammirato le foto di Nigel Farage sbracato su un divano all’Europarlamento con una faccia stranamente felice, perché ritiene di aver vinto una battaglia storica? Qualcuno gli chieda che cosa farà da domattina. Lo sa soltanto lui, ma possiamo garantire a chi è leggermente in pena che non resterà disoccupato.
Si fregano, contestualmente, le mani i deputati eletti negli altri ventisette Paesi che stavano aspettando la fatidica data per rimpiazzare i settantatre deputati britannici e loro sì che hanno motivo di festeggiare.
I britannici, liberi finalmente, non avranno più obblighi con l’Unione, nessuno s’insinuerà nelle loro abitudini, non verranno disturbati negli esclusivi circoli in prossimità della City e di Westminster a colazione e all’ora del the con scocciature sulla misura del fagiolino o della curvatura del cetriolo o sulle paturnie della Merkel e le pindariche svolazzate nel cielo di Jupiter di Macron.
L’Europa finalmente è lontana, molto più lontana di quel braccio di mare che partendo dalla gare du Nord a Parigi lo si attraversa in men che non si dica: due ore e quaranta minuti per tuffarsi in un altro mondo, in un impero polveroso e antipatico, almeno a chi scrive, pur amando T.S. Eliot e Roger Scruton.
Oggi in Gran Bretagna si celebrerà la “liberazione” e forse anche noi celebreremo insieme con loro dopo le seccature telegiornalistiche degli ultimi tre anni che ci hanno mandato di traverso la cena, procurandosi, chissà perché, una leggera apprensione. Ma poi apprensione perché?
Perché noi siamo europei e loro no. O almeno lo sono soltanto geograficamente visto che hanno dimenticato in fretta il magnifico discorso di un’euroscettica sensata, intelligente e colta come Margaret Thatcher a Bruges che rendeva omaggio alla civiltà romana e mediterranea, pur negando che il destino britannico dovesse legarsi a quello dell’Europa continentale. In fondo l’imperialismo non l’hanno mai rinnegato e non capivano perché loro, i primi della classe, dovevano stare in quel consesso burocratico, tecnocratico, impopolare e impotente che è l’Europa di Bruxelles e di Strasburgo. Chi fa affari con l’Uk, chi ama lo stile di vita British, chi ci vive da esule privilegiato, un po’ di rammarico se lo porterà addosso per qualche settimana, ma il resto? Gli imperi d’Oriente avanzano. A loro resta una caricatura imperiale come il Commonwealth. Non mi sembra abbastanza per gioire.
Inutile raccontarci ancora la vecchia favola secondo la quale gli inglesi non hanno capito nulla, hanno votato male, sono stati indotti in errore. Basta farsi un giro per Londra o raggiungere la campagna circostante per rendersi conto di una consapevolezza maturata fin da quando lady Thatcher batteva i pugni per come si andava costruendo la comunità di Stati che sarebbe poi diventata l’Unione. E tuttavia non faceva mistero del suo europeismo storico-culturale, appena ricordato.
La Gran Bretagna ha subito l’ingresso nell’Unione, per motivi geopolitici più che economici, ma non ha mai amato l’operazione che la costringeva ad accettare l’egemonia franco-tedesca. E per di più si rendeva conto – e lo faceva intendere, a differenza dell’Italia e di altri Paesi – che dall’Atto Unico Europeo del 1987 al Trattato di Maastricht del 1992, dall’accordo di Lisbona del 2007 agli innumerevoli e cavillosi espedienti per tenere insieme ciò che insieme non poteva stare, per costruire “l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro” occorreva un mago. E perciò erano autorizzate tutte le critiche che si sono sovrapposte e intrecciate per come questi adempimenti sono stati concepiti ed attuati.
Roberto Caporale, economista e manager, lo ha ricordato, nell’indifferenza dei più, qualche anno fa con il suo Exeunt (Rubbettino), denunciando, gli errori normativi, le incongruenze giuridiche ed economiche, perfino adombrando uno spirito volutamente superficiale nell’apparecchiare i presupposti che prima o poi avrebbero provocato l’uscita dall’Unione; un progetto sul quale le parti, come constatiamo, non sono state all’altezza. E verificato ciò, a nessuno può essere impedito di denunciare l’esito di un referendum regolarmente indetto e svolto anche se con l’imperizia degna di dilettanti allo sbaraglio, utilizzato da David Cameron per ottenere di più dall’Europa e, dunque, dall’asse franco-tedesco, realizzando il risultato opposto.
Vi sono ragioni “sentimentali” più che politiche che guidano e giustificano spesso scelte di governo e perfino le alleanze tra gli Stati. Questo dato psicologico non è stato colto. E Theresa May non l’ha capito, come non l’aveva capito Cameron. In sintonia con il popolo, a parte Nigel Farage, avventuriero occasionale della lotta politica britannica, Boris Johnson, per quanto scapigliato, ha saputo capire il sentimento dell’elettorato e rilanciarlo contro un decrepito Labour rappresentato da un vetero-marxista come Jeremy Corbin, insensibile a tutto tranne che a farsi sollecitare dalle lusinghe del potere. Di fronte all’Europa franco-tedesca i britannici hanno compreso che il loro benessere (ma non sappiamo se sarà tale o se i contraccolpi diventeranno micidiali per la loro economia) non può che prescindere dalle logiche di Macron e di Merkel o dei loro successori.
La stessa scelta di non entrare nel circuito di Schengen, di non accettare la moneta unica, di sollevarsi dalle polemiche sull’immigrazione posto che loro – in maniera forse discutibile per noi – le hanno risolte tenendo conto di essere il cuore di un impero multiculturale e multi- identitario; la presenza – che verrà rilanciata – del Commonwealth che, per quante ironie ci permettiamo, nell’universo britannico non è da sottovalutare. Sono tutti elementi che militano dalla parte della Brexit.
Il silenzio imbarazzato europeo sulla vicenda calato come una lastra di piombo nelle ultime settimane è significativo del fatto che la maggioranza degli interessati (cioè i sudditi di Sua Maestà) due conti se li sono fatti. Ed hanno compreso che sarà inevitabile, per quanto lo si sia a lungo negato da parte dei membri dell’Unione, che sarà indispensabile istituire rapporti bilaterali rafforzati. La Gran Bretagna potrà scegliersi i suoi partner e questi avranno tutto l’agio di contrattare da pari a pari senza vincoli “unitaristi” e, dunque, senza chiedere permessi impropri a Bruxelles o a Francoforte, per realizzare progetti economici, finanziari e culturali che se non sono in palese contrasto con le politiche dell’Unione possono offrire vantaggi anche a chi rimane nell’Unione europea.
Se l’esperimento, chiamiamolo così, dovesse funzionare, è credibile che si metterebbe in moto un processo quantomeno di revisione dell’Unione stessa a vantaggio degli Stati europei che già contestano l’organismo, e non da oggi.
Insomma, sui volti della gente incontrata a Londra o a Liverpool nelle ultime settimane, avvicinandosi la data fatidica, non abbiamo scorto i segni di uno sfacelo annunciato, ma di una speranza. Nella capitale si respira un’aria di tranquillità, soltanto Abbey Road mi ha messo un po’ di tristezza per quanto le strisce pedonali stanno ancora dove le attaraversavano John, Paul, George e Ringo. Perfino nella City il clima non è cambiato. E vi sembrerà strano, ho trovato Hyde Park più colorato e armoniosa perfino Canterbury che sempre mi aveva messo addosso un po’ d’ansia. Gioiscono perfino gli ex duchi del Sussex. La Swinging London sembra rinata e a Bond Street come a Regent Street nuovi stili sembrano affacciarsi nel perimetro ondeggiante della capitale multicolore, multietnica, multireligiosa, multi tutto, perfino multi football, centro di smistamento de nuovo calcio europeo…
Non trema nessuno. Tranne alcuni che hanno interessi specifici e, per esempio, continuano ad insistere, come certi giornali inglesi, che il mercato dell’auto è in calo per colpa della Brexit. Peccato che tale mercato è in calo vertiginoso in tutt’Europa, mentre dovrebbero aggiungere (ma non lo fanno) che l’economia inglese cresce dell’1,3%, l’occupazione registra dati assai incoraggianti (disoccupati al 4%…e in Italia o in Francia quanti sono?), i salari aumentano. La lotta di classe vive nella barba incolta di Corbin.
La Brexit è ridiventata una questione esclusivamente britannica ora che la Manica si è allargata ed i salmoni continuano a saltare nel Tamigi, splendido e inquinato. Il silenzio, invece, si addice all’Europa che si sbriciola, priva di una politica economica comunitaria seria e rispettosa di tutti i soggetti, di una politica internazionale coerente e fondata su una visione che non dovrebbe ammettere conflitti tra le parti. La confusione è a Bruxelles non a Londra. Dove nessuno ha vinto e nessuno ha perso, dopotutto. Ha semplicemente prevalso un metodo: antico quanto si vuole, ma è naturale che non si può stare a tavola con commensali che si detestano. Chi ha ragione lo sapremo. Intanto ognuno può farsi l’idea che vuole.
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